Kibrom lavora come facchino nella logistica in una città della Svizzera tedesca. Con altre centinaia di uomini e donne del Coordinamento Eritrea Democratica ha raggiunto Bologna questa mattina per partecipare alla contestazione del festival organizzato dal regime eritreo in una città che ha storicamente accolto chi scappava dalla dominazione etiopica, prima dell’indipendenza, e che oggi dà colpevolmente ospitalità alla manifestazione ufficiale del governo dittatoriale di Isaias Afewerki. Kibrom ha raggiunto l’Europa 6 anni fa, dopo avere attraversato il deserto ed essersi imbarcato con altri uomini e donne in fuga, come lui, dal lavoro coatto che la dittatura impone a tutti i ragazzini a partire dall’adolescenza: «mi hanno praticamente fatto schiavo, nessuna libertà, nessuna giustizia, nessun salario, per questo io come altri giovani ce ne siamo andati e ce ne andiamo in Europa». Il reclutamento obbligatorio nell’esercito è in realtà un modo per estorcere lavoro gratuito alle nuove generazioni, imponendo la disciplina di regime. Abrahm, 24 anni, ha lasciato l’Eritrea appena compiuti i 18 anni, dopo un anno nell’esercito. Ha avuto la ‘fortuna’ di trascorrere tre mesi in un carcere libico, scampando così al naufragio dello scafo su cui avrebbe dovuto imbarcarsi per raggiungere l’Italia. Ci spiega che in Eritrea puoi essere «reclutato» da un momento all’altro, ti fermano per strada, ti vengono a prendere a casa, ti portano via senza il tuo consenso e quello della tua famiglia: «i bambini – come quelli che oggi danzano nel festival – sono impiegati nelle attività propagandistiche. Chi ha le forze per lavorare viene messo a costruire strade e nei cantieri. Le donne sono messe al servizio dei burocrati come domestiche, esposte ai loro abusi sessuali». Come ci spiega Uitta, 19 anni, nata in Italia da una famiglia fuggita dal paese dopo l’instaurazione della dittatura, le nuove generazioni sono messe a tacere in questo modo, mentre il loro esodo attraverso il deserto e il Mediterraneo è tacitamente accettato dal regime «che così pensa di liberarsi dell’opposizione interna».
Ricca, in Europa dal 2004, cittadina francese, in esilio per 12 anni durante la guerra di indipendenza dopo aver scontato 10 mesi di galera, ha scelto nuovamente l’esilio nel 2004 rifiutando questa dittatura. Spiega che questo festival è una risposta alle manifestazioni di protesta che i dissidenti stanno organizzando in tutto il mondo: «il regime sta approfittando del semestre italiano di presidenza dell’Unione e dello storico rapporto con l’Italia coloniale per recuperare il consenso che sta perdendo. Le istituzioni di Bologna si sono scusate per avere ospitato questo festival, ma ora devono appoggiare chi sta sostenendo le proteste. L’Eritrea si è trasformata in Lampedusa, mentre quelli che rimangono sono ridotti in schiavitù, senza libertà di parola». Le istituzioni sembrano pensarla diversamente, persistendo in certi vizietti da passato coloniale, nonostante che di quel passato l’Italia continui a far serenamente finta di nulla: dopo oltre due ore di discorsi e slogan pronunciati in tutte le lingue da uomini e donne di almeno tre generazioni, provenienti da ogni parte d’Europa, i funzionari delle forze dell’ordine hanno comunicato che gli organizzatori del festival pretendevano che i microfoni degli oppositori venissero spenti per non disturbare il regolare corso delle celebrazioni. Un messaggio giustificato alla luce di inesistenti formalità amministrative e tutt’altro che neutrale, perché evidentemente compiacente nei confronti di un regime che pretende di mettere a tacere chi lo contrasta anche al di fuori dei suoi confini nazionali. Senza successo, in ogni caso, perché dopo la richiesta le voci dei manifestanti si sono levate ancora più alte. Organizzato per ricostruire la legittimità della dittatura, quello di Bologna è d’altra parte un festival blindato, se si considera il dispiegamento di poliziotti e carabinieri che lo presidiano dall’esterno, mentre il servizio d’ordine privato interno perquisisce chiunque entri.
L’appoggio offerto dagli eritrei che all’interno del Parco nord «danzano sui corpi di Lampedusa», come si afferma nel volantino che ha indetto la protesta, è una delusione per chi, come Agostino, trent’anni fa ha combattuto nel fronte di liberazione del popolo eritreo ed è stato costretto a considerare il 24 maggio 1991, il giorno dell’indipendenza dall’Etiopia, a black day, un giorno nero, in cui una dittatura ha preso il posto di un’altra. Ma come ci spiega ancora Uitta si tratta di un appoggio obbligato, per la paura della repressione che gli eritrei portano con sé anche se hanno lasciato il paese e perché le ambasciate rifiutano di concedere il visto o rinnovare il passaporto agli oppositori.
La lotta degli eritrei a Bologna contro il festival della dittatura eritrea intreccia la lotta dei migranti che, in ogni parte d’Europa, lottano ogni giorno contro il regime dei confini. Elena ha 17 anni, è nata a Milano. Suo padre ha perso un braccio nella guerra di liberazione ed è fuggito dall’Eritrea dopo l’instaurazione della dittatura di Isaias Afewerki. Per lei «è inconcepibile che chi fugge da un regime e lotta per la propria libertà sia costretto a perderla di nuovo a Lampedusa o nel Sinai». Il regime di Dublino II, l’assenza di una legge in materia d’asilo che tuteli realmente i richiedenti e i rifugiati, il razzismo istituzionale in tutte le sue forme sono altrettanti mezzi per mettere a tacere le lotte di chi, attraversando i confini, afferma la propria libertà. Anche quando si rivolge contro le burocrazie degli Stati di origine, come è stato nel caso della contestazione organizzata dai lavoratori marocchini di fronte al consolato del Marocco a Bologna, anche quando denuncia la dittatura di un altro paese, ogni contestazione dei regimi di privazione e limitazione della libertà deve essere riconosciuta come un momento delle lotte della forza lavoro in Europa contro il suo sfruttamento e la sua precarietà. Per questo dopo aver sostenuto oggi il presidio al Parco nord, il Coordinamento migranti invita migranti e italiani a sostenere la lotta degli uomini e delle donne eritree partecipando al presidio che si terrà domani, sabato 5 luglio, in Piazza Maggiore a Bologna alle 17.