Il 23 novembre e oltre: contro la violenza maschile e la guerra che arma il patriarcato

di ASSEMBLEA DONNE DEL COORDINAMENTO MIGRANTI

 

La libertà delle donne è un problema per gli Stati e i regimi che fanno la guerra. E quando la guerra infiamma, il potere e la violenza degli uomini sulle donne cercano nuova legittimità e diventano più brutali. Per stare dalla parte di chi lotta contro l’oppressione, dall’Ucraina alla Palestina fino al Libano, l’iniziativa femminista non può temere di far sentire la propria voce perché altre lotte sono più pressanti, ma deve rendere visibile il legame tra la guerra e la violenza patriarcale per combatterle entrambe: per porre fine al genocidio di Israele, per fare in modo che la pretesa della pace in Ucraina non cada nelle mani alla destra autoritaria rappresentata da Donald Trump, per opporre la forza del nostro rifiuto della violenza maschile alla guerra e al militarismo che agiscono anche lontani dai fronti, qui e ora, armando il patriarcato.

La guerra getta macerie di silenzio sulle lotte delle donne, che però non si fermano. Con i pochi mezzi che hanno a disposizione, donne e queer palestinesi stanno lottando per essere libere dalla violenza dell’esercito israeliano, che fa della violenza sessuale un’arma per dominare il territorio, e da quella di ogni uomo che vorrebbe cancellare la loro voce. Lottano le donne ucraine, che si oppongono fisicamente ai rastrellamenti messi in campo dall’esercito per obbligare alla leva gli uomini che si rifiutano di combattere. Lottano le giovani renitenti israeliane che si fanno arrestare e scendono in piazza per opporsi al genocidio perpetuato dal governo di Netanyahu, che continua a essere chiamato democrazia anche quando reprime con la forza il dissenso interno. Lottano le donne curde sotto le bombe del regime autoritario di Erdogan, che si fa forte del proprio ruolo nella regione per portare ordine in Turchia, dove la violenza maschile è esplosa dopo il ritiro dalla Convenzione di Istanbul e quotidianamente sono represse le mobilitazioni di donne e persone lgbtq+. Lottano le donne Masalit che denunciano lo stupro usato come arma di sostituzione etnica dalle forze paramilitari in Sudan, che agiscono con il preciso intento di ingravidarle per creare con la guerra, il sangue e il patriarcato un popolo e una nazione “puri”. Lottano le donne iraniane che il regime opprime con sempre più intensità per mantenere la propria immagine di grande potenza, nonostante le ribellioni che lo tormentano dall’interno. Il patriarcato teocratico teme le donne e alla loro ribellione risponde con l’internamento psichiatrico – come ha fatto con Ahoo Daryaei, che si è spogliata per protesta nel cortile dell’università Azad di Teheran – o con l’impiccagione, a cui è stata condannata l’attivista curda Varisheh Moradi. Eppure, le iraniane non smettono di ballare in strada e sfrecciano impavide sulle moto per protestare contro la repressione e l’obbedienza che il regime vorrebbe imporre vietando loro di guidare, di studiare, di vivere. Dare voce e connetterci a queste lotte è il nostro primo compito, se vogliamo trovare la forza transnazionale per abbattere i confini scavati dalla guerra.

Dobbiamo farlo perché la guerra scavalca quei confini e porta i suoi effetti oltre i campi di battaglia armando il patriarcato. In nome della democrazia occidentale da difendere con le bombe, il militarismo si insinua ovunque. In Italia, nell’Europa dell’Est, nell’America di Trump, di Milei e dei fanatici evangelici, l’altra faccia dell’ideologia della democrazia sotto assedio, della terra e del sangue, della potenza nazionale è l’attacco senza quartiere alle donne e alle persone Lgbtq+. Deve essere spezzata la loro libertà per farle lavorare dentro e fuori casa per la patria, impoverite dallo sfruttamento mentre l’industria delle armi si gonfia di fondi pubblici e allunga le mani sulla scuola, la ricerca l’università. Deve essere disciplinata la loro sessualità imponendo i “giusti” ruoli con leggi e proibizioni, come quelle sull’aborto, sulla GPA come reato universale e contro la transizione di genere. Niente deve mettere in questione la divisione sessuale del lavoro e la famiglia chiamate a sostenere un welfare azzerato dalle spese per la difesa. Devono essere militarizzati ed esternalizzati i confini per mettere al sicuro ogni nazione e l’Europa intera dagli inarrestabili movimenti degli uomini e delle donne migranti, per le quali lo stupro è il rischio da affrontare per trovare la libertà, come avviene nel campo profughi di Sfax per mano della stessa polizia tunisina finanziata dall’UE.

Anche il governo italiano si allinea in questa guerra mondiale e con tutti i mezzi sostiene il patriarcato necessario a combatterla. Giorgia Meloni – che continua ad appoggiare politicamente il genocidio di Israele e la guerra in Ucraina – sostiene che l’occupazione femminile non è mai stata così alta, ma non dice niente sulle sue condizioni. Le donne hanno sempre lavorato tanto, ma ora lo fanno con tassi altissimi di part-time involontario e il solito lavoro domestico che non può essere misurato per arrivare a fine mese con salari impossibili. Bisogna difendere la famiglia! È l’imperativo che risuona nelle misure di natalità del governo, che servono soltanto a irreggimentare la libertà sessuale. Mentre il governo mostra i muscoli per spedire i migranti in Albania o mette a processo le donne in fuga dalla violenza come Maysoon Majidi, nell’ufficio immigrazione della questura di Bologna uno zelante funzionario razzista nega il permesso di soggiorno a una donna migrante perché non è in grado di essere una “vera madre”. Così il moralismo fascista e il patriarcato razzista vengono istituzionalizzati, in una macchina che produce e riproduce la violenza. Meloni si fa beffa di chi invoca la parità di genere dicendo di averla già realizzata, e continua con la politica di cancellare la storia e lo schieramento femminista dei centri antiviolenza, concedendo a chiunque abbia una patente da psicologo di aprirne uno. Il ministro dell’Istruzione Valditara – lo stesso che promuove la cultura militarista nelle scuole di ogni ordine e grado – nega l’esistenza del patriarcato, attacca il femminismo come ideologia per affermare la propria ideologia – quella dell’ordine, della disciplina, della violenza e delle gerarchie che noi chiamiamo patriarcato – e ne approfitta per fomentare il razzismo contro i migranti. Intanto, i femminicidi in Italia si susseguono senza tregua per mano di maschi sempre più giovani, figli di un patriarcato ferito che può riaffermarsi solo con una violenza che non ha né colore, né religione né cultura, ma solo un sesso.

Noi sappiamo che il patriarcato è ferito dalla libertà delle donne che di fronte a questa violenza non abbassano la testa. Per ciascuna di quelle uccise, altre hanno preso parola, urlato in piazza, praticato e preteso la propria libertà. Solo pochi giorni fa abbiamo visto giovani studentesse protestare contro i presidi delle scuole che affidano al “minuto di silenzio” la memoria delle compagne uccise, come se fossero vittime di disgrazie irrimediabili e non di rapporti di potere che vanno rovesciati. Hanno fatto rumore tutte insieme, a un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, per Aurora e per tutte le altre. Abbiamo visto Gisele Pelicot entrare a testa alta in un’aula di tribunale in Francia e affrontare 51 dei suoi stupratori, sapendo di non essere sola ma di incarnare la lotta di ogni donna contro la violenza sessuale. Abbiamo visto le donne indiane “reclamare la notte” e scioperare contro gli stupri e i femminicidi negli ospedali di Calcutta. Abbiamo visto le donne in Iraq opporsi alla legge che autorizzerà il matrimonio infantile, ovvero lo stupro minorile, abbassando l’età legale del “consenso” da 18 a 9 anni e mettendo anche in dubbio il diritto delle donne al divorzio, all’eredità e all’affidamento dei figli. La violenza della guerra rischia di soffocare, nascondere, cancellare queste lotte, mentre il femminismo che si fa reclutare dalla logica della guerra e dei suoi fronti sceglie di ignorarle. Per questo, come Assemblea delle donne del Coordinamento migranti continuiamo a credere che l’opposizione alla guerra è femminista se vive nella lotta contro la violenza maschile e che la lotta contro la violenza maschile è la nostra forza per opporci alla guerra, al genocidio, all’autoritarismo violento e razzista delle destre trionfanti di Netanyahu e Trump come di Erdogan e Meloni, al patriarcato giustificato in nome di qualunque dio, della civiltà Occidentale o del capitale.

Per disarmare il patriarcato saremo a Roma il 23 novembre, partecipando alla manifestazione nazionale di Non Una di Meno. A un anno dalla marea che si è sollevata per Giulia Cecchettin non vogliamo fare la triste conta delle vittime, ma continuare a organizzarci perché siano le ultime. Il 23 novembre e oltre, dobbiamo fare della pace a cui aspiriamo il terreno di un conflitto femminista e transfemminista. Il grido di libertà delle donne e persone queer in tutto il mondo deve essere più alto e feroce di quello del patriarcato in armi.

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