Domenica scorsa Moussa Diarra, un migrante maliano di 26 anni, è stato ucciso con un colpo di pistola da un agente della polizia ferroviaria davanti alla stazione di Verona Porta Nuova. Era arrivato in Italia dalla Libia otto anni fa, lavorava nei campi senza un contratto regolare e per uno stipendio da fame che gli veniva pagato sistematicamente in ritardo, viveva con altri lavoratori migranti in uno spazio occupato prossimo alla chiusura, per i cui abitanti il comune non aveva ancora trovato alcuna soluzione alternativa. Di recente stava avendo problemi con il rinnovo dei documenti, tra i soliti ritardi delle istituzioni competenti e l’impossibilità di convertire il permesso per motivi umanitari in permesso di lavoro.
Nelle ore in cui il Consiglio d’Europa pubblica un rapporto sulle diffuse pratiche di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine italiane, mandando su tutte le furie i razzisti di governo, i loro giornali e tutte le alte cariche dello Stato,è bene ribadire che Moussa non è morto ammazzato da un generico razzismo in divisa. Lo scrive benissimo, sul Manifesto di ieri, Mackda Ghebremariam Tesfaù: quello sparato addosso a Moussa è solo l’ennesimo, infame colpo «in quel fuoco incrociato che è il razzismo istituzionale in questo paese». Un razzismo istituzionale che ogni giorno continua a produrre migliaia di vicende come quella di Moussa, proprio mentre il nuovo decreto sicurezza rischia di rendere sempre più frequente anche il tragico epilogo autorizzando le forze dell’ordine a portare anche le armi private senza licenza. Un razzismo istituzionale che in questi giorni sta venendo fuori in tutta la sua violenza negli infami commenti del ministro Salvini, o nella battaglia del governo per poter continuare a organizzare deportazioni oltreconfine, tra le benedizioni dei rappresentanti di più di mezza Europa.
Quasi contemporaneamente all’omicidio di Moussa, Mohamed Naffati, un migrante tunisino, documentava sul suo profilo TikTok la sua detenzione nel CPR di Milano, dov’era stato trasferito dopo essersi recato in commissariato a Como per denunciare il suo vecchio datore di lavoro, che gli aveva pagato l’ultimo stipendio con un assegno scoperto. Nel giro di una decina di giorni, Mohamed è stato prima ripetutamente picchiato, poi sottoposto a un vero e proprio processo sommario al termine del quale, in seguito a un colloquio con la sua avvocata, è stato caricato sul primo volo per il suo paese d’origine. Viveva e lavorava in Italia da dieci anni e aveva presentato l’ultima richiesta di protezione internazionale a settembre dell’anno scorso, vedendosi fissare l’appuntamento per la formalizzazione della domanda soltanto a novembre di quest’anno.
Chi a sinistra si schiera a difesa dei rifugiati ne parla ormai solo come risorse, finendo per giudicare i piani di governo in termini di spreco più che di ingiustizia. Come Confindustria, il cui rapporto oggi mostra preoccupazione per la carenza di manodopera che calcola non si risolverà nemmeno con le politiche occupazionali, la sinistra e i suoi economisti sui giornali danno la loro ricetta con tanto di indirizzo: invece di mandarli in prigione in Albania o di sparargli in strada o di deportarli, mandateli nelle fabbriche che non trovano operai, come a Legnano, a rivitalizzare i nostri centri manufatturieri. Nessuno dice che i migranti che hanno “rivitalizzato” il settore tessile a Prato sono stati presi a sprangate per aver lottato contro turni di 12 ore e paghe da 4 euro l’ora. Nessuno ricorda che lo sfruttamento ammazza quanto la polizia e i confini. Soprattutto nessuno dice che le e i migranti che vengono qui cercano lavoro per essere libere e non per tappare i buchi del mercato del lavoro italiano. Ancora oggi, invece, donne e uomini migranti sono considerati poco più che invasori, schiavi malpagati, o poveri diavoli a cui basterebbe dare un qualsiasi impiego, tanto si accontentano. Bisogna quindi chiedersi: perché la libertà dei migranti e il loro movimento indisciplinato sono un problema?
L’assassinio di Moussa Diarra e l’espulsione di Mohamed Naffati sembrano suonare come un monito lanciato dai razzisti di ogni ordine e grado nei confronti di tutti gli uomini e tutte le donne migranti. Per le strade come nei centri di accoglienza o di detenzione, nelle fabbriche e nelle campagne come nelle stanze di governo e negli uffici delle prefetture e delle questure, ovunque ci sia un padrone da difendere o un ordine securitario da ristabilire, le vite di donne e uomini migranti sono destinate a dover sottostare a una violenza razzista sempre più sfacciata e arbitraria, una violenza che, come a Prato, i migranti sono disposti a combattere anche di fronte alle intimidazioni mafiose dei padroni. In questo scenario, continuare a organizzarci e a lottare contro sfruttamento e oppressione è più che mai necessario.