Il prossimo 8 marzo sarà di nuovo sciopero femminista e transfemminista. In Italia è stato lanciato ancora da Non Una di Meno, in condizioni completamente diverse dalla sua prima volta. Se vogliamo parlare di marea, se continuiamo a sperare che risalga, dobbiamo riconoscere che la marea può essere bassa in un luogo e altissima altrove. Oggi l’8 marzo non è preceduto dal fragore che qualche anno fa lo annunciava in tutte le lingue, caricandolo di desiderio e di attesa. Però la marea è altissima in Iran, dove centinaia di migliaia di donne negli ultimi mesi hanno sfidato a volto scoperto il dominio maschile, guidato una rivolta, innescato scioperi. Le donne iraniane hanno dato a milioni di uomini il coraggio di lottare. Hanno contagiato con la loro forza un’intera regione, insieme alle donne afghane che non accettano di essere annientate da un altro patriarcato teocratico. Non si tratta soltanto di abolire l’obbligo del velo, ma di abbattere un intero regime politico e sociale che si regge su quell’obbligo e non riguarda solo le donne. Noi troviamo in Iran il significato vivo dello sciopero femminista: è la lotta di una parte della società travolge tutto. Per questo la rivolta delle donne iraniane non è solo un episodio da nominare nei comunicati, ma è la nostra risorsa. Da qui dobbiamo partire se vogliamo far risuonare quel significato e trovare le parole e i terreni di iniziativa per farlo. Il rifiuto della violenza patriarcale e del suo mondo vive nei movimenti delle donne in fuga dalla guerra, nelle proteste delle madri russe che sfidano la repressione, negli scioperi essenziali delle infermiere in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, nelle voci delle donne che non accettano di vivere la maternità come una condanna. Sta a noi fare dello sciopero la possibilità di dare corpo collettivo a tutte queste rivolte quotidiane, frammentate e isolate, alimentando il movimento di una parte che sfida la società intera. Per questo dobbiamo chiederci: oggi che cosa afferma l’urgenza dello sciopero dell’8M? Come impedire che diventi un rito che si ripete ogni anno evocando il mito di ciò che è stato?
Questa possibilità per noi passa dalla capacità di costruire un’opposizione femminista e transfemminista alla guerra in Ucraina che riesca a guidare, come è stato in Russia, il movimento che la combatte. In Italia Non Una di Meno ha cercato di farlo, riconoscendo che la guerra è la manifestazione più brutale della violenza patriarcale. La posta in gioco, però, è sempre più alta e dichiararci contro tutte le guerre non ci permette di fare i conti con questa, che non è più importante perché accade alle porte dell’Occidente, ma perché sta affermando il patriarcato a livello mondiale con la violenza delle armi. Qualche giorno fa, l’ucraina Oleksandra Matviichuk, premio Nobel per la pace 2022, ha dichiarato che «smettere di armare l’Ucraina è come lasciare una donna sola in ascensore con lo stupratore». Persino il rifiuto della violenza maschile è arruolato dalla guerra, gettando il silenzio sugli stupri come arma di guerra. Ogni fronte invoca l’autodeterminazione dei popoli, ma perché le donne possano autodeterminarsi bisogna riconoscere che “il popolo” non esiste: esiste la divisione tra chi stupra e chi non vuole essere stuprata che traccia la linea della nostra lotta. Intanto, mentre plaude alle madri che si occupano della riproduzione della vita sotto le bombe, il governo ucraino ha aperto alle donne l’ingresso volontario nell’esercito. La parità di genere che fa dell’Ucraina un paese europeo riduce l’emancipazione alla partecipazione alla guerra. Zelensky impedisce alle donne trans di uscire dal paese, perché le considera maschi da arruolare. Putin da parte sua inneggia alla maternità patriottica, ma soffoca nella repressione le madri russe che protestano contro la guerra e attacca le persone Lgbtq. I nemici fanno fronte unico con un patriarcato senza patria e pretendono di stabilire che le alternative possibili per le donne sono un’emancipazione armata o una sottomissione pacificata. Affinché lo sciopero viva come possibilità spetta a noi gridare che queste alternative sono entrambe impossibili. Solo così possiamo dire no a tutte le guerre che questa guerra sta rendendo più inevitabili e violente.
Fare dello sciopero una possibilità vuol dire che l’intersezionalità tra sesso, razza e classe che usiamo nelle nostre rivendicazioni non può essere un brand, ma è un progetto da praticare. Per qualche mese, dopo lo scoppio della guerra, più di sei milioni di profughe ucraine in fuga sono state accolte nei paesi dell’UE con canali privilegiati rispetto a donne e uomini neri che in Ucraina vivevano, studiavano, lavoravano. A un anno dallo scoppio della guerra, questo ‘privilegio’ è tornato a essere ordinario razzismo istituzionale. Oggi quelle profughe sono schiacciate nella miseria dell’accoglienza, calcolano che tornare con figli e figlie sotto le bombe è più conveniente che morire di sussidi irrisori, oppure accettano lavori e salari infami per sopravvivere in Europa. La Caritas italiana ha attivato corsi professionalizzanti per il lavoro domestico destinati alle donne ucraine. Il buon cuore cristiano alimenta uno sfruttamento invisibile che non finirà, ma continuerà in nero, quando i salari delle badanti aumenteranno del 9%, come prevede il nuovo contratto nazionale, e molte saranno licenziate per essere messe al lavoro senza contratto e a salari più bassi. I confini sono un’arma di guerra: le donne russe in fuga sono respinte sulla frontiera croata con i loro bambini perché russe, mentre Putin distribuisce visti per favorire il passaggio verso l’UE usando le migranti e i migranti come ricatto. I confini saranno un investimento per la ricostruzione: la stessa UE prevede di integrare nuovi paesi dell’Est, da sempre bacini di forza lavoro a basso costo, mentre innalza muri e militarizza le frontiere contro ogni movimento indisciplinato di donne e uomini migranti. Tutto questo cambierà, sta già cambiando il modo in cui tutte e tutti siamo e saremo messe al lavoro dentro e fuori casa. Opporsi al razzismo sistemico e alla violenza dei confini non può essere un ritornello, ma è la lotta che deve vivere nelle pratiche e nei discorsi del movimento femminista e transfemminista affinché lo sciopero sia una possibilità per tutte e tutti.
Oggi il governo di Giorgia Meloni è la faccia del patriarcato, del razzismo istituzionale e dello sfruttamento in Italia e dovrebbe essere chiamato per nome. Non è solo un governo tra tanti che urla più forte «Dio Patria e Famiglia». È il primo governo guidato da una donna, che nega di esserlo quando si tratta di fare il capo e poi lo rivendica quando dice che fa il bene delle donne, identificandole con il ruolo di madri e rafforzando la famiglia come pilastro dell’ordine sociale. Dobbiamo opporci alle politiche familiste e continuare a rivendicare la libertà di abortire sotto attacco, in Italia e altrove. Ma come femministe e transfemministe dobbiamo anche riconoscere che molte donne sono madri e che la manovra di Meloni non le aiuta per niente. Quello che è accaduto all’ospedale Pertini è solo l’evidenza più tragica di una politica che inneggia alla maternità come istituzione sociale mentre lascia a ciascuna donna il dovere di affrontarla come rischio individuale, e mentre obbliga le lavoratrici essenziali a lavorare in una sanità pubblica devastata dalla pandemia. Il quoziente familiare, l’attacco al reddito di cittadinanza, gli sgravi fiscali alle imprese che assumono le donne renderanno il loro lavoro fuori di casa ancora più precario, mentre faranno di quello domestico il ‘supplemento’ di un welfare che Meloni sta definitivamente azzerando. L’«opzione donna» per quanto riguarda le pensioni può essere praticata in condizioni limitatissime, o a patto che le donne lascino il lavoro in anticipo per continuare a lavorare in casa, ‘badando’ ai propri familiari anziani o disabili. Queste misure sono l’altra faccia di un’ideologia e di pratiche istituzionali razziste che attaccano i e le migranti per far credere a lavoratrici e lavoratori italiani di essere dei privilegiati, mentre li impoveriscono. È questo il trucco del nuovo decreto flussi, che permette di assumere i migranti soltanto se non ci sono percettori di reddito di cittadinanza disponibili, e che dicendo «prima gli italiani!» giustifica con il razzismo il disprezzo per i poveri e il dovere di accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione. Non è un fatto solo nazionale: di fronte agli inarrestabili scioperi delle infermiere, il primo ministro britannico Sunak ha varato una legge antisciopero che permette di licenziare chi incrocia le braccia. Sempre Sunak ha minacciato un colpo di stato esecutivo per impedire l’approvazione della legge scozzese che liberalizza la scelta della propria identità di genere. Quando in gioco sono il corpo e la libertà sessuale, la democrazia occidentale mostra la sua faccia autoritaria e il patriarcato gonfia il petto per rispondere a una crisi sociale senza precedenti. Perciò non bastano rivendicazioni valide in tutti i tempi e non è sufficiente contrapporre i nostri bisogni e desideri alle loro manovre. I bisogni e i desideri, oggi, sono il grido muto di chi si spacca la schiena per soddisfarli. Essere la parte che si rivolta contro la società per noi significa riconoscere che le donne sono il bersaglio di politiche che stanno trasformando radicalmente il mercato del lavoro e il welfare, e che proprio per questo possono essere al centro della lotta per rovesciarle. La sfida è diventare la sovversione in movimento di politiche di governo che non conoscono opposizione. Fare dello sciopero femminista una possibilità di connessione transnazionale per chi non vuole pagare sulla propria pelle l’uscita dalla crisi del presente, ma pretende di mettere il presente in crisi.
Lo sciopero dell’8 marzo quest’anno sarà preceduto dallo sciopero globale per il clima del 3 marzo e in questa coincidenza noi vediamo l’occasione di una pratica di convergenza. Può legarli la parola d’ordine dello sciopero, che dà il nome all’ambizione di interrompere non solo la produzione di ricchezza, ma la riproduzione di una società che si regge sulla violenza maschile e la devastazione ambientale prodotta dal capitale. Può legarli la pretesa di riprendersi il futuro negato da quella violenza e soffocato da questa devastazione. Dovrebbe unirli il rifiuto della guerra, che irreggimenta il patriarcato e legittima nuove politiche di ingiustizia climatica in nome della sicurezza energetica. Questa coincidenza può essere trasformata in un’opportunità per evitare che lo sciopero femminista e transfemminista diventi solo un mito celebrato dalle attiviste, che vive nel passato e non è in grado di attivare chi dovrebbe dargli corpo nel presente.
Noi scommettiamo che le piazze si riempiranno l’8 marzo, perché il rifiuto della violenza maschile non è stato cancellato dalle difficoltà materiali e organizzative. Per sostenerlo saremo all’assemblea di NUDM a Torino, il 4 e 5 febbraio, e a quella della Transnational Social Strike Platform a Francoforte, il 10-12 febbraio, quando insieme a centinaia di donne, migranti, lavoratrici, sindacalisti, attiviste e attivisti di tutta Europa e oltre raccoglieremo l’invito delle femministe russe a «imparare a scioperare di nuovo». Questo invito fa dello sciopero femminista una possibilità aperta, che non può essere contenuta in una sola data o in un solo paese, ma che l’8 marzo non va sprecata né data per scontata. Sentiamo la sua necessità di fronte alla guerra. Riconosciamo la sua urgenza per contrastare la violenza patriarcale e razzista del neoliberalismo militarizzato. Dare corpo a questa possibilità non è interamente nelle nostre mani, ma non smettiamo di chiederci come alimentarla, anche rifiutando i codici e le cerimonie che rischiano di farne un altro rito.
Abbiamo parlato della manovra finanziaria del governo Meloni e dell’impatto che potrà avere su donne e migranti anche nell’ultima puntata del podcast “Guai a Chi ci Tocca” a cura dell’Assemblea Donne del Coordinamento Migranti.