Amina [nome di fantasia] è in causa per aver subito violenza da suo marito e, come imputata, per aver maltrattato i suoi figli. La Questura di Bologna le ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno con questi argomenti: «Probabilmente […] non ha mai realmente compreso che cosa voglia dire essere una madre, e probabilmente non lo capirà mai».
È un provvedimento che trasuda patriarcato da ogni pagina, da ogni parola. Amina è dipinta come una criminale, un’aguzzina feroce, senza empatia senza “alcun barlume di umanità e responsabilità genitoriale”.
Amina non ha ancora nemmeno ricevuto una sentenza definitiva dal tribunale, ma un funzionario dell’Ufficio immigrazione ha già stabilito che lei – in quanto è una madre ritenuta indegna “per deduzione” – è anche indegna di restare. Il razzismo non manca: Amina è definita «pericolosa per l’incolumità della comunità e distante anni luce dai principi di questo Ordinamento e in generale agli ordinamenti democratico-liberali». Non solo una madre indegna ma, in quanto tale, incompatibile con i principi fondamentali di quella che chiamano democrazia. Un corpo estraneo da espellere, insomma. E infatti le hanno ritirato il permesso di soggiorno.
Noi non abbiamo il problema di giudicare, non siamo un tribunale del popolo e nemmeno delle donne. Non ci interessa dispensare sentenze, sanzioni, punizioni. Ma come donne e femministe, migranti e italiane, non possiamo sopportare il patriarcato razzista in divisa e il moralismo fascista. Lo zelante funzionario, che ritiene che il caso di Amina sia da giudicare non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello «etico-morale», assume «che la famiglia dovrebbe rappresentare un porto sicuro» e «infondere protezione e amore».
Parla della stessa famiglia in cui Amina ha subito violenza da suo marito, e in cui decine di migliaia di donne ogni giorno incontrano la brutalità di un uomo che pensa di essere il loro padrone. Parla della stessa famiglia in cui molte donne migranti sono obbligate a restare anche se subiscono violenza, perché il loro permesso di soggiorno dipende da quello del marito che le opprime. Parla della stessa famiglia che alle migranti e ai migranti è comunque negata, perché il ricongiungimento familiare è ormai da anni impossibile senza condizioni di reddito e abitative che possono permettersi solo i ricchi, non certo chi vive di un salario.
Quella di Amina è una storia di violenza insopportabile, e per lottare contro questa violenza è necessario alzare la voce contro il patriarcato razzista. Noi non conosciamo madri ideali. Conosciamo donne che combattono per poter essere madri senza dover subire la violenza di un uomo, del razzismo istituzionale, dello sfruttamento. Conosciamo donne che non vogliono essere madri e non ammettono che qualcuno – con o senza divisa – imponga loro la maternità come un dovere. Il provvedimento che ha colpito Amina non riguarda solo lei, ma ci riguarda tutte, una per una: perché non possiamo accettare che ogni atto di governo, ogni decreto amministrativo, renda la morale patriarcale un dovere istituzionale delle donne.
Per Amina e insieme a tutte quelle donne che rifiutano la violenza maschile e razzista saremo in piazza il 23 Novembre a Roma con Non una di Meno per gridare «Ci vogliamo vive e libere. Disarmiamo il patriarcato!».