Abbiamo intervistato alcuni operai migranti e attivisti dello Strike Day di Prato e della lotta contro Montblanc, entrambe organizzate con il sostegno del sindacato Sudd Cobas. Dalle interviste emerge non solamente la quotidianità di oppressione e sfruttamento del distretto tessile di Prato e della filiera della moda, ma anche la risposta decisa dei lavoratori e delle lavoratrici, in gran parte migranti. La realtà del lavoro nel tessile – uno dei fiori all’occhiello del “Made in Italy” – è fatta di turni di lavoro di 12 ore o più, di salari da fame, di continui tentativi da parte dei padroni di dividere lavoratori e lavoratrici migranti, di difficoltà per ottenere un permesso di soggiorno e sfuggire al suo ricatto. A tutto questo si aggiunge la violenza fisica e le intimidazioni, che ormai sono all’ordine di giorno nel distretto pratese. Dopo i raid punitivi notturni contro il presidio dello Strike Day di qualche settimana fa, nelle ultime ore è stato aggredito un operaio pakistano di 22 anni, preso a bastonate per aver denunciato al sindacato le condizioni di lavoro nell’azienda dove lavora, e poco dopo un gruppo di lavoratori e attivisti che stavano andando a fargli visita in ospedale è stato perquisito “alla ricerca di armi ed esplosivi”. Gli operai e le operaie hanno risposto e continuano a rispondere a tutto questo con uno sciame di scioperi che nel giro di pochi giorni hanno ottenuto alcune importanti conquiste e hanno attivato un processo che sembra destinato a crescere. Queste conquiste sono state ancora più evidenti nel caso della lotta contro Montblanc che va avanti da un anno. Dopo gli scioperi del 2023, i contratti vengono regolarizzati, gli operai che avevano partecipato alla lotta hanno iniziato a lavorare “otto ore per cinque giorni” (“8×5” è il nome dato alla lotta in corso in tutto il territorio toscano) e finalmente possono godere del diritto alla malattia, alle ferie, ai permessi. Montblanc reagisce con una sorta di delocalizzazione interna, ovvero sposta gli ordini verso quelle fabbriche dove può ancora contare sullo sfruttamento senza freni della forza lavoro. Ma gli operai non si fermano e non sono disposti ad accettare questi raggiri.
Nel distretto tessile e nella filiera della moda c’è una “domanda di sciopero” che diventa lo strumento di rifiuto di un lavoro ogni giorno più povero e violento da parte di lavoratori e lavoratrici migranti.
Iniziamo da quello che è successo a Prato. Qualche settimana fa c’è stato uno Strike Day che ha coinvolto lavoratori migranti del comparto tessile. Potete spiegarci le ragioni dello sciopero e come è andata?
Mohamed (Strike Day): Per raccontarla brevemente, nell’azienda del distretto industriale di Prato per cui lavoro abbiamo scioperato contro condizioni di lavoro insostenibili. E abbiamo visto i risultati! Prima lavoravamo praticamente tutti i giorni, dodici ore al giorno, senza fermarci per settimane, a volte anche per un mese consecutivo. Adesso lavoriamo 8 ore al giorno, 5 giorni su sette, come previsto da un nuovo contratto.
Marco (ricercatore e militante Sudd Cobas): Si, lo sciopero è cominciato il 6 ottobre in cinque aziende dell’area industriale di Seano, in provincia di Prato. Si tratta di aziende molto piccole del settore del pronto moda, in cui lavorano tra le dieci e le quindici persone al massimo (e in alcuni casi anche molti meno), soprattutto lavoratori cinesi e pakistani. Sono aziende in cui è difficile scioperare perché gli iscritti al sindacato sono al massimo due o tre per azienda, quindi è difficile bloccare le merci. Lo sciopero in queste aziende è una bella novità, soprattutto perché i sindacati hanno sempre fatto molta fatica ad intervenire. ll Sudd Cobas è molto forte in aziende di medie dimensioni – tintorie, stamperie – dove ci sono più iscritti. Questa volta il sindacato ha voluto scommettere sul fatto che anche nelle aziende con pochi lavoratori, quelle che sono l’ultimo anello della filiera, si fosse raggiunta una forza sufficiente. Lo sciopero è iniziato di domenica, proprio per dimostrare che si lavora anche di domenica. Facendo partire 5 scioperi contemporaneamente si è mobilitato immediatamente qualche centinaio di persone, facendo dei turni per fare in modo che ai presidi ci fosse almeno una decina di persone a bloccare le merci. Nel giro di pochissimi giorni questi scioperi sono stati un successo. Per la prima volta il sindacato ha vinto in 4 aziende nel giro di 2 giorni. Una quinta azienda ha resistito più a lungo, ha mandato anche un gruppo a picchiare i lavoratori in sciopero durante la notte, ma alla fine ha ceduto. Tutte hanno firmato contratti di 8 ore per i lavoratori… Che poi è semplicemente quello che è previsto dalla legge e dai CCNL, ma c’è stato bisogno di uno sciopero per ottenerlo. La cosa più interessante è che durante il presidio hanno chiamato lavoratori di altre aziende dicendo di voler fare sciopero. Nelle 2 settimane del presidio si sono aggiunte altre 3 aziende, quindi si sono ottenuti 8 accordi in poco tempo, questo per me è un fatto storico. Adesso il sindacato è praticamente sommerso dalle richieste di sciopero da parte dei lavoratori, perché è evidente che sta servendo e si vedono i risultati. Anche laddove in passato si doveva dire di no, con gli strike day ora è possibile vincere anche in situazioni più complesse. C’è una crescente domanda di scioperare da parte dei lavoratori.
Al di là dello sciopero, le conquiste vertenziale sono solo su orari di lavoro o sui salari?
Marco. Principalmente si richiede l’applicazione del contratto nazionale di settore, per cui è principalmente sull’orario di lavoro: non farne più 12 ma farne 8. Perché qual è il problema, questi operai o non hanno il contratto oppure ne hanno uno a 4 ore, che è uno strumento di ricatto perché se inizi lo sciopero “ah bhe, tu hai detto 4 ore, ti do 700 euro al mese” che non sono sufficienti per vivere. Il movimento 8×5 chiede i contratti a 8 ore, ma ovviamente per fare questo serve un sindacato alle spalle che quando il padrone vuole costringere a farne comunque 12 minaccia lo sciopero. Quindi principalmente orario di lavoro, è questa l’urgenza che hanno i lavoratori, perché lavorare 12 ore significa non avere tempo per vivere: è schiavitù.
Dicevate che la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici del settore è migrante, in migliaia provengono da Cina, Pakistan, Bangladesh e Nord Africa. Sappiamo che in queste condizioni è spesso difficile organizzarsi, perché ci sono le difficoltà linguistiche, perché i contratti e le condizioni di lavoro sono giocati al ribasso, perché spesso le aziende usano strategie per dividere i lavoratori migranti. A Prato, come ci avete raccontato, si sono aggiunte anche le violenze e le intimidazioni fisiche. Qual è la vostra esperienza a partire dallo sciopero? Lottate con operai italiani in queste situazioni?
Abbas (Strike Day). Le situazioni sono diverse, ci sono fabbriche dove si lavora dieci ore al giorno, sette giorni su sette, e altre dove i giorni di lavoro sono sei ma le ore sono quattordici. E questo riguarda soprattutto noi lavoratori migranti, pakistani, afghani, indiani, africani, mentre nelle stesse fabbriche gli italiani lavorano otto ore al giorno, cinque giorni su sette. Quando andiamo a chiedere lavoro ai padroni cinesi di queste fabbriche ci dicono che dobbiamo lavorare due mesi senza contratto, per dieci o dodici o tredici ore al giorno, e poi se gli piace come lavoriamo ci fanno un contratto per quattro ore al giorno. Ti racconto la mia esperienza nella fabbrica dove lavoro. Dentro ci sono sette lavoratori italiani, cinque donne e due uomini, che lavorano al controllo qualità. Il padrone – cinese – ha fatto il furbo, perché nonostante in questo periodo ci sia tantissimo lavoro, ci ha messo in cassa integrazione per due settimane al mese. In quelle settimane fa lavorare operai cinesi in nero per tredici ore al giorno. Io ho detto che così non va bene, che prima avrebbe dovuto parlarne col sindacato. Posso anche accettare di rimanere a casa quando lavoro non ce n’è, ma evidentemente in questo periodo il lavoro c’è. In questo mese sono andato ogni sabato fuori dalla fabbrica a controllare quante persone entravano e quante stavano a casa: mentre noi eravamo a casa in cassa integrazione, perché il padrone ci aveva detto che non c’era lavoro, lui ha preso tre nuovi operai cinesi a fare il nostro lavoro senza contratto per tredici ore al giorno. Allora io ho detto al padrone che finché c’è lavoro io a casa non ci vado, può anche chiamare i carabinieri ma io rimango dentro la fabbrica perché lui ha fatto il furbo. La maggior parte di questi operai cinesi non è sindacalizzata, anche se c’è qualcuno che sta cominciando ad entrare nel SUDD Cobas.
I padroni creano grandi differenze tra di noi: per esempio quando finisce il lavoro riaccompagnano gli operai cinesi a casa con la macchina, gli danno la casa e gli portano da mangiare durante il giorno oppure li accompagnano dal medico o a fare il permesso di soggiorno, mentre gli altri lavoratori migranti si devono arrangiare. Questo è chiaramente un modo per dividere i lavoratori. Gli operai cinesi non si iscrivono al sindacato e non vogliono lottare perché prendono più soldi di noi.
Ci sono anche operaie?
Abbas. Sì, ma le lavoratrici donne sono tutte cinesi. Lavorano nelle nostre stesse condizioni ma godono delle stesse differenze di trattamento degli operai cinesi. Per questo non partecipano alla nostra lotta.
Secondo te perché i lavoratori e le lavoratrici migranti accettano queste condizioni di lavoro?
Abbas. Ci sono diversi motivi. Il primo motivo è che bisogna mandare soldi a casa. Poi ci sono tante spese da sostenere qua, per dormire, mangiare, comprare i vestiti, e i soldi non sono mai sufficienti, quindi c’è la corsa a lavorare il più possibile. Considera che la maggior parte di noi lavora senza un contratto regolare, quindi è un problema per il permesso di soggiorno. Per rinnovare il permesso dobbiamo chiedere a dei nostri connazionali che hanno delle aziende di farci contratti falsi. In particolare per chi ha il permesso di sei mesi è impossibile farsi regolarizzare dai propri padroni perché fanno i furbi, chiedono il passaporto, molti non lo hanno perché è scaduto e la Questura ha tempi lunghi, o il codice fiscale per il quale però a sua volta viene richiesto il contratto. Io mi chiedo perché il governo non controlla queste fabbriche, visto che si sa come funzionano le cose, si sa che c’è tutto questo sfruttamento dei migranti. Invece quando vengono a fare i controlli non vanno mai a parlare con i padroni, vengono soltanto da noi operai a chiederci i documenti. Eppure ci sono situazioni come quelle degli operai cinesi che prendono il doppio degli altri, pagati in nero, perché i padroni dicono che sono come una famiglia per loro, anche se poi lavorano anche loro dodici ore al giorno.
Veniamo alla lotta contro Montblanc. Per che cosa state lottando e come?
Ali. Abbiamo lavorato per Montblanc per anni, senza diritti, senza ferie, senza malattia, come schiavi. Lavoravamo dodici ore al giorno, sei giorni su sette, per due euro all’ora, una paga da fame. Montblanc pagava all’azienda tra i cinquanta e i sessanta euro per una borsa che poi vendeva a quasi duemila euro. Quando sono arrivati a dover pagare cento euro per una borsa perché ci siamo iscritti al sindacato hanno tagliato il lavoro e hanno trovato altri schiavi da mettere al posto nostro [Z Production ed Eurotaglio, società di pelletteria in appalto per il gruppo Richemont]. Da allora si sono sempre rifiutati di aprire un tavolo con noi per risolvere la situazione. Abbiamo scioperato davanti alla regione Toscana per portare Montblanc a un tavolo, ma la regione non ha ancora fatto nulla. Noi però continuiamo la nostra lotta contro lo sfruttamento.
Marco. La lotta contro Montblanc fa parte di una campagna contro grandi brand del lusso che si chiama “Shame in Italy”, che cerca di mostrare cosa c’è dietro la menzogna del Made In Italy. Dietro il racconto di un lavoro artigianale, di bottega, che rispetta l’ambiente e i lavoratori, c’è una realtà di sfruttamento brutale. Ci sono condizioni di lavoro che in molti credono lontane o superate, oppure tipiche dei grandi colossi della fast fashion. Il sindacato sta riuscendo per la prima volta a portare una lotta contro questi grandi brand. Ovviamente è difficile, aziende come Montblanc hanno un fatturato di decine di miliardi e ad oggi spostano impunemente le commesse dove vogliono, delocalizzando appena si affermano i diritti dei lavoratori quindi quello che c’è da fare è colpirne l’immagine. Oggi viene lanciata una convergenza europea di proteste davanti ai negozi Montblanc per denunciare queste condizioni di sfruttamento.