A che ci serve l’intersezionalità oggi?

Pubblichiamo questo testo come materiale di discussione in vista dell’evento “A che ci serve l’intersezionalità oggi? Dibattito pubblico sulle lotte presenti, i loro limiti e come affrontarli” che si terrà il 17 maggio alle ore 18.30 presso Granata in via San Rocco 16, a Bologna. L’evento sarà un dialogo aperto a cui tutte sono invitate a partecipare e durante il quale interverranno la Collettiva cinese Ylou, Non Una Di Meno Torino e Non Una Di Meno Bologna. 

La parola intersezionalità è arrivata a noi attraverso la voce di una donna nera, Kimberlè Crenshaw, giurista e attivista afroamericana. Secondo lei, “senza una cornice che ci permetta di vedere come i problemi sociali si ripercuotono su tutti i membri di un gruppo specifico, molti di loro cadranno tra le fessure del nostro movimento, lasciati a soffrire in isolamento” perché “quando i fatti non si allineano con le strutture disponibili, le persone hanno difficoltà ad incorporare questi nuovi fatti nel modo in cui pensano a un problema, e spesso non riescono a identificarlo”. Se non riusciamo a vedere un problema però, non possiamo risolverlo, ed è un dato di fatto che manchino donne e queer migranti e operaie nelle assemblee femministe. Dovremmo seriamente interrogarci su questo, perché razzismo e sfruttamento cambiano il modo in cui il patriarcato ci tocca, e il modo in cui possiamo lottare contro il patriarcato. Come fare ad aprire quello spazio all’interno del movimento e nelle nostre assemblee? Per noi intersezionalità non significa ‘includere’ nel proprio spazio femminista chi non ne fa parte, ma trasformare il femminismo in un movimento che permette di organizzarsi a chi vive condizioni diverse, eppure legate, di vita e di lavoro. Come possiamo raggiungere questo obiettivo?

Zehra Doğan, senza titolo, acrilico su carta di giornale, Istanbul, 2017
Zehra Doğan, senza titolo, acrilico su carta di giornale, Istanbul, 2017


Il femminismo come pratica ci spinge a chiederci da che parte stiamo? L’intersezionalità dovrebbe permetterci di guardare le questioni nelle loro diverse dimensioni per riuscire a trovare una soluzione comune. Questa però è già una lama a doppio taglio: se da un lato ci dà la preziosa opportunità di conoscere posizioni differenti di razza, classe, sesso e genere dal punto di vista delle persone che portano le cicatrici di questi rapporti di potere e di queste battaglie sulla propria pelle, la ricerca di una soluzione omogenea può farci cadere nella trappola di praticare l’intersezionalità come un metodo per evitare il conflitto anziché affrontarlo. Noi pensiamo che questo accada perché viviamo le differenze con timore, tendiamo a separarle in compartimenti stagni non comunicanti. Quel “da che parte stiamo” paradossalmente non è nemmeno più una scelta ma sarebbe espressione di un’identità già data, che ci impone di schierarci dalla parte che si allinea con gli ideali che socialmente e storicamente la rappresentano.

 

Il fatto che esistano esperienze diverse di oppressione stabilisce un’impossibile comunicazione tra di noi?
La realtà sotto i nostri occhi ci prova che questo non è vero. Il movimento femminista è formato da donne e queer con identità e vissuti differenti, magari persino in opposizione tra loro, che però dovrebbero lottare guardando nella stessa direzione perché è chiaro che le condizioni materiali e pratiche che non ci toccano personalmente ci toccano invece politicamente. I sistemi di oppressione sono intersezionali, indipendentemente dal fatto che i movimenti di liberazione lo siano o meno. Le lotte di liberazione oggi sono separate, non perché sono troppo diverse ma perché quelle differenze – che riguardano il potere e la possibilità stessa di lottare – non vengono mai affrontate. La guerra in questi mesi ha reso ancora più difficile avviare un dialogo su queste differenze e ne ha create altre invece di permettere connessioni tra esse. Con il risultato di dividerci e indebolire i nostri sforzi organizzativi. Eppure, in questi anni l’esperienza del movimento femminista ha travolto il mondo intero e lo sciopero ha fatto comunicare e lottare insieme donne e queer che dall’America Latina a ogni angolo del mondo si sono ribellate per non essere più vittime della violenza patriarcale. Chiederci che cosa significa intersezionalità significa anche chiederci come praticarla oltre i confini territoriali, degli Stati e delle comunità. Come facciamo a intersecare le lotte di donne che la guerra ha messo su fronti diversi e contrapposti, ma possono essere unite dal rifiuto della violenza maschile che si esprime nella guerra?
La sfida che ci troviamo a dover affrontare allora è questa: come far proprie tutte queste lotte, tenendo a mente che è rilevante conoscere e comprendere le differenze che le attraversano, senza però che queste portino ad ulteriori frammentazioni? e in che modo possiamo praticare una politica intersezionale che non ci riduca al silenzio, soffocate dalla moltiplicazione delle differenze come identità che impongono a ciascuna di parlare solo per sé?
Noi stesse non abbiamo una soluzione, ma poniamo dei problemi sia a partire da noi – dalla nostra esperienza come Assemblea di donne migranti e italiane, bianche e nere, queer ed etero, con diverse esperienze di lavoro e precarietà – sia dentro al movimento femminista di cui siamo parte. Le domande che poniamo sono l’apertura a un confronto che per noi è necessario affinché “intersezionalità” sia una pratica politica femminista che possiamo condividere e non uno slogan vuoto.
Jennifer C. Nash, teorica femminista afroamericana, afferma che “L’intersezionalità in sé non è una tattica per combattere l’oppressione, ma è una lente attraverso la quale possiamo guardare per creare queste tattiche”. Il che porta a chiedersi: come movimento femminista, come facciamo i conti con l’intersezionalità e con il suo portato conflittuale? Quali sono i motivi per cui la pratichiamo e come facciamo a farne una prospettiva di forza?


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *