Domenica 17 marzo l’intesa ormai consolidata tra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen ha dato un’ulteriore prova di stabilità. Con una delegazione composta anche da altri cinque capi di governo europei, Meloni e von der Leyen sono andate in Egitto per firmare con il presidente Al Sisi un patto da 7,4 miliardi di euro per i prossimi quattro anni, in cambio della promessa di bloccare i movimenti dei migranti. “Il nostro obiettivo è gestire nove milioni di stranieri ora sul nostro territorio”, ha detto Al Sisi ai leader europei, i quali questa volta non si sono nemmeno dilungati in ipocrisie di circostanza: neanche una menzione di facciata al vecchio mantra dei “diritti umani”, nemmeno una condizione per prestiti e aiuti miliardari. Hanno preferito piuttosto staccare in fretta e furia l’ennesimo assegno in bianco a un regime autoritario e assassino, garantendo così ancora una volta investimenti e profitti italiani ed europei sulla pelle di milioni di donne e uomini migranti. Nel frattempo, l’hotspot di Lampedusa torna a superare la sua capienza massima, e il Mediterraneo non cessa di restituire i corpi di decine di morti per fame, sete, ustioni, a causa delle politiche del governo italiano contro le ONG.
Quello con l’Egitto è l’ultimo di una lunga serie di accordi con cui l’Unione Europea ha accettato negli anni di pagare profumatamente dittatori e governi autoritari del vicinato per arruolarli come guardiani dei suoi confini. La sempre più imponente opera di esternalizzazione delle frontiere passa per gli accordi con la Turchia di Erdogan, per i continui rinnovi dei memorandum con Tunisia e Mauritania, per la recente proposta del PPE – appoggiata dalla stessa von der Leyen – di imitare il “modello Rwanda” sperimentato dall’Inghilterra: deportare all’estero i migranti per gestire le loro richieste lontano da sguardi indiscreti. La politica europea di esternalizzazione passa poi anche per iniziative autonome degli Stati membri, come il piano Mattei dell’Italia o il patto che il governo Meloni ha stipulato con l’Albania per costruire sul suo territorio centri di detenzione sottratti a ogni controllo e ogni regola. Sul governo delle e dei migranti, leader europei e destre in ascesa hanno trovato un’intesa per la lenta e sistematica distruzione del diritto di asilo, che dovrebbe diventare un fatto compiuto con l’approvazione della riforma di Dublino, sancendo la fine di ogni possibilità di accesso regolare in Europa al di fuori di quote regolate sempre più esigue.
L’accordo con l’Egitto è tuttavia molto più significativo e ambizioso. Per ora l’Egitto è un paese di transito piuttosto che di partenza, ma la sua economia è stata messa in ginocchio dagli effetti della terza guerra mondiale. Il conflitto in Ucraina ha colpito l’importazione di grano, gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso hanno dimezzato le tariffe del Canale di Suez, e le casse del paese sono talmente al dissesto che sempre più egiziani provano ad attraversare il Mediterraneo passando dalla Tunisia. Soprattutto, l’Egitto è la destinazione di milioni di migranti che fuggono dalla guerra civile in Sudan, nonché l’unica possibile via di uscita per le donne e gli uomini palestinesi colpiti dalla guerra genocida di Israele. Che l’Egitto si stia preparando a gestire una massiccia ondata di profughi da Gaza non è più un segreto. Con questo accordo, l’Europa si assicura che la scure dello Stato militare di Al Sisi si abbatta sui movimenti di migliaia di uomini e donne colpiti dalla violenza della guerra, affinché il loro desiderio di ricostruirsi un futuro altrove non disturbi i confini europei.
Nello stesso tempo, l’UE si assicura anche che circolino liberamente i capitali di investimento per megaprogetti per la produzione di energia “pulita” e sia soddisfatta l’esigenza di forza lavoro a basso costo. L’accordo miliardario con l’Egitto, infatti, affianca al tema delle migrazioni quello degli investimenti nelle politiche energetiche della “transizione verde”, nonché i soliti e altisonanti proclami sulla cooperazione e lo sviluppo degli investimenti locali. L’ennesimo viaggio della delegazione europea in Nord Africa mostra in modo chiaro come con la guerra sia sempre più stretto l’intreccio tra il regime dei confini che colpisce uomini e donne migranti e gli accordi energetici e climatici, i partenariati per il commercio, la trama di affari che ormai compongono la geografia dei rapporti tra l’Europa e i suoi vicini. L’altra faccia di questa esternalizzazione è l’apertura delle frontiere per il capitale.
Si tratta di processi e tendenze che vengono da lontano, ma che la guerra sta accelerando in modo inedito. Paesi europei come la Francia stanno scalando le classifiche dei produttori ed esportatori di armi, e la stessa Unione Europea sta promuovendo piani comunitari per dotarsi di un’industria di guerra e di risorse energetiche adeguate allo scopo. Un accordo come quello con l’Egitto mostra anche una delle verità della nuova Europa in guerra: mentre riorganizza massicciamente canali produttivi, commerciali e finanziari, attacca violentemente la pretesa di libertà di milioni di donne e uomini migranti che continuano ostinatamente a muoversi per costruirsi una vita migliore. Dentro i confini europei, questa guerra è combattuta contro il lavoro migrante che viene chiamato a pagare il costo più alto di tutti: case, servizi e sanità quasi azzerati, accoglienza sovraffollata e insalubre, intensificazione dello sfruttamento, impoverimento e condizioni sempre più stringenti e diversificate per provenienza e colore della pelle per ottenere un permesso di soggiorno che è sempre più precario. Per molti mandare i soldi alle famiglie nei Paesi di origine, dove i costi della vita sono saliti con la guerra, vuol dire essere costretti a lavorare con salari da fame per il doppio delle ore. Il nuovo militarismo dell’Europa si traduce così all’interno nell’imposizione di gerarchie sempre più rigide: dal lavoro fino alla scuola, che il ministro Valditara – con i suoi discorsi sul merito e la sua proposta, poi ritrattata, di istituire classi separate per le figlie e i figli dei migranti – vorrebbe trasformare in caserme.
Per questo non possiamo lasciare soli coloro che si ostinano ad attraversare i confini, che affrontano quotidianamente razzismo e sfruttamento, che scappano dalla guerra e la rifiutano. La loro lotta non può che essere la lotta di tutte e tutti contro l’Europa in guerra e contro la guerra che essa continua da anni a combattere contro la libertà delle e dei migranti. Oggi più che mai stare dalla parte delle e dei migranti significa anche schierarsi contro la guerra.