L’Assemblea Migranti del Mattei e il Coordinamento Migranti si sono riuniti per discutere della situazione dell’accoglienza e dei permessi di soggiorno a Bologna e in regione. Erano presenti migranti da Rimini, Piacenza e Forlì, oltre a chi vive nel CAS di via Mattei e in quello di Ozzano. La mobilitazione degli scorsi mesi attraverso conferenze stampa, presidi e manifestazioni ha denunciato le precarie condizioni di vita in camere affollate, al freddo dell’inverno, con bagni e docce intasati, l’impossibilità di lavare i vestiti, il cibo scarso e scadente. Il rifiuto di queste condizioni da parte dei migranti è andato oltre le istituzioni dell’accoglienza con cui si vorrebbe chiudere la questione. È stato un rifiuto politico contro tempi, modi e pratiche razziste con cui prefettura e questura amministrano le loro vite negando la loro libertà.
La prefettura di Bologna ha provato a svuotare l’Assemblea spostando i migranti in diverse città. Alcuni di loro hanno trovato delle case a ospitarli oppure dei centri che non presentavano le stesse misere condizioni del Mattei, potendo accedere a scuole di italiano e – dopo altre proteste – al pocket money. In molti sono riusciti a dare le impronte digitali, primo passo per la richiesta di asilo e per ottenere il permesso in attesa della commissione. Soprattutto, la prefettura non è riuscita nel suo intento politico di mettere a tacere i migranti e impedirne un’organizzazione che rimane difficile e complicata dalle diverse condizioni giuridiche e amministrative che dividono i migranti.
L’Assemblea ha discusso questa difficoltà. In alcune città c’è chi non ha mai ricevuto ciò che gli spettava per la permanenza al Mattei, altri – a Piacenza – non ricevono ancora regolarmente il pocket money; alcuni – come a Rimini – hanno dato le impronte ma devono attendere due o quattro mesi per avere il permesso per poter lavorare e accedere alla sanità e ad altri servizi; altri ancora hanno finalmente ottenuto il permesso di sei mesi in attesa della commissione. Qui sta la difficoltà: non ci sono categorie generali. Ci sono invece condizioni differenti che rendono difficile praticare interventi che non siano assistenziali, che non pretendano di risolvere in quartiere disuguaglianze sancite e alimentate dal razzismo istituzionale. Chi si è sempre rifiutato di chiamare i migranti con il loro nome, dopo aver sostenuto che sono proletari come tutti gli altri, oggi per garantire la sua identità di gruppo, scopre che sono dei working poors. Questa tensione a negare le differenze reali che lo sfruttamento impone, non riesce a darsi ragione del fatto che i migranti devono ricevere un’autorizzazione politica che si chiama permesso di soggiorno o diritto d’asilo che determinano quanto e dove possono lavorare, con chi possono o non possono abitare, se possono o non possono affittare una casa e riunire la loro famiglia, in definitiva la forma concreta della loro povertà. E questa situazione differente, che alimenta il razzismo che pesa anche sulle nuove generazioni e su chi ha raggiunto una qualche stabilità di status, non si può cancellare cambiando le parole.
I migranti sanno di doversi muovere dentro a questa difficoltà, ma sanno anche di potersi organizzare dentro e contro le condizioni differenti imposte per legge e amministrate da prefetture e questure. A Bologna la situazione è inaccettabile: tempi e procedure per prendere le impronte, rilasciare i permessi e avviare la chiamata della commissione dividono i richiedenti asilo sulla base della nazionalità. I migranti che vengono da un paese che il ministero dell’Interno ritiene sicuro – come Senegal, Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Gambia, Marocco, Algeria e altri – hanno le commissioni entro un paio di mesi dopo aver rilasciato le impronte, mentre per gli altri il tempo di rilascio dei permessi in attesa della commissione viene sospeso per mesi e mesi. Il problema politico immediato che i migranti (non solo) di questa regione hanno allora davanti in questo momento è che – con tempi e modi diversi – con ogni probabilità riceveranno un diniego dalla commissione territoriale di Bologna a cui fanno capo le altre della regione. Per coloro che vengono da un paese dichiarato sicuro, le commissioni preparano con il diniego anche il provvedimento di espulsione, costringendo i migranti ad affrettarsi a fare ricorso per non diventare clandestini in 15 giorni. Come se non bastasse, presentato il ricorso, un giudice stabilisce in via preliminare entro 5 giorni se il ricorso è ammissibile oppure no. Se non lo è, la clandestinità è immediata.
Dalla prefettura alla questura, dalla questura alla commissione territoriale: questa è la strada a senso unico in cui è rinchiusa la vita dei migranti e la loro pretesa di libertà. Questa è la condizione migrante che non può essere negata e che continua a inasprirsi in uno scenario transnazionale inevitabilmente segnato dalla guerra e dalla sua logica, come mostrano la riforma del patto europeo sulla migrazione e l’asilo, che mira a limitare l’accesso all’asilo attraverso procedure differenziate in base alla nazionalità, e la nuova legge francese sull’immigrazione. È questa pretesa di libertà che l’Assemblea migranti del Mattei e il Coordinamento migranti continueranno ostinatamente ad organizzare e per cui continueranno ostinatamente a lottare.
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