Ogni uomo che ammazza una donna pensa di poterlo fare perché ci sono migliaia di altri uomini che disprezzano le donne fino ad ammazzarle. Questo è il messaggio che comunica la violenza maschile a tutti gli uomini. Noi vogliamo trovare il modo di comunicare a tutte le donne che non sono sole di fronte questa violenza: dietro a ogni suo atto ci sono milioni di noi che non vogliono servire un marito o un padrone, che non vogliono essere proprietà di nessuno, che non vogliono essere sfruttate a letto, in casa o sul posto di lavoro, che non accettano l’imposizione del velo come simbolo della sottomissione di un’intera popolazione, come avviene in Iran, che vogliono muoversi attraverso i confini per avere una vita migliore. Vogliamo lottare contro tutte le condizioni che la sostengono, rafforzano, giustificano la violenza maschile: la guerra in Ucraina, perché è una grande macchina globale che normalizza la violenza; il razzismo istituzionale, perché vuol far ancora più soldi e cercare più voti sulla pelle delle e dei migranti; lo sfruttamento quotidiano che ci isola e non ci permette di trasformare la nostra rabbia contro la violenza maschile in una forza collettiva. Questo è il desiderio che ci muove, di questo abbiamo bisogno.
Abbiamo ripetuto che la violenza maschile è strutturale, ma dobbiamo dichiarare che cosa significa se non vogliamo che sia una formula vuota. Per noi vuol dire che la società nella quale viviamo pretende che le donne siano subordinate in ogni ambito dell’esistenza, ma anche che questa subordinazione cambia a seconda delle condizioni sociali in cui viviamo, lavoriamo, lottiamo. Bianche e nere, con o senza documenti e soldi in tasca, giovani o meno, eterosessuali, lesbiche o trans, tutte le donne fanno i conti con la violenza maschile. Di fronte a ogni episodio di violenza ognuna è costretta a dire: avrei potuto essere io. Però di fronte alla violenza maschile non siamo tutte uguali. Tutte le donne sanno che devono stare attente quando tornano a casa da sole la sera. Una donna nera sa che ci sono molte più possibilità di essere presa per una puttana, come se per gli uomini questo fosse un motivo in più per considerarla disponibile, soltanto un oggetto da usare a proprio piacimento. Tutte le donne sanno che denunciare la violenza subita le espone al rischio di essere messe sotto processo, perché i giudici del patriarcato diranno che “se la sono cercata”. Una donna migrante senza documenti a denunciare non ci pensa nemmeno, perché corre il rischio non solo di non essere creduta, ma di essere espulsa. Per questo noi diciamo che per lottare contro la violenza maschile bisogna lottare contro il razzismo istituzionale e chi non lo fa, anche se si dichiara intersezionale a parole, è razzista. La nostra forza contro la violenza maschile è anche quella di ogni donna migrante che combatte attraversando i confini, che non vuole accettare di essere sfruttata senza limiti per rinnovare un permesso di soggiorno, ed è quella di ogni donna che non accetta di stare in fondo alla gerarchia sociale solo perché ha la pelle nera. Senza questa forza un movimento femminista e transfemminista non può vivere, non può espandersi, non può essere transnazionale.
Durante la pandemia le donne hanno lottato in ogni angolo del mondo per mostrare che il loro lavoro è essenziale e per rifiutare uno sfruttamento senza limiti. Adesso si parla di lavoro solo quando cade sotto la soglia di povertà oppure non se ne parla per niente. Per i governi d’Europa le donne contano solo perché sul loro corpo si gioca la partita della crisi demografica e del calo della natalità. Le destre di tutto il mondo, come quella incarnata da una donna di nome Giorgia, invocano l’ordine della famiglia, l’importanza della maternità, il valore del lavoro delle donne, e in questo modo dicono che dobbiamo stare zitte e buone, fare l’amore solo con gli uomini, solo in famiglia, o solo per figliare. In Italia si programmano sussidi ridicoli per le madri ma non si dice niente di quanto e di come le donne stanno lavorando, e di quanto sia difficile evitare la violenza in casa o le molestie sui posti di lavoro quando bisogna lavorare a tutti i costi per poter vivere o quando il salario non basta a farcela da sole. Di queste condizioni noi dobbiamo parlare affinché le lavoratrici non debbano restare sole nella loro lotta quotidiana contro lo sfruttamento. Altrimenti, combattere la violenza maschile rimarrà un privilegio di poche che si lamentano dei propri privilegi e non fanno niente per rovesciarli.
La guerra in Ucraina può sembrare lontana, mentre la violenza maschile è vicina. Ma guerra e violenza maschile sono legate a doppio filo. La guerra in Ucraina è lo sfondo inevitabile delle nostre lotte: migliaia di donne perdono la vita e subiscono violenza sul fronte, tantissime altre combattono oppure fuggono perché non succeda anche a loro, tutte cercano di sopravvivere con i pochi mezzi che la guerra ha lasciato loro. La guerra è quella condizione nella quale siamo obbligate a credere che possiamo pretendere al massimo di sopravvivere, e chi alza la testa e reclama qualcosa di più dovrà abbassarla con la forza. Questo autoritarismo armato piace tanto alle destre reazionarie, ma è alimentato anche dal femminismo se questo non prende posizione contro la guerra in Ucraina. Noi questo autoritarismo lo dobbiamo combattere facendo del femminismo la forza di una politica transnazionale di pace, una politica in cui la pace è lo spazio in cui lottiamo non solo per vivere, ma per essere libere.
Di fronte alle difficoltà del presente corriamo il rischio di cadere in un senso di impotenza, di limitarci a contare le vittime. Ma lottare contro la violenza maschile significa trovare una forza collettiva per non essere mai più vittime. Nel movimento femminista e transfemminista non se ne parla quasi più, come se fosse un’esperienza ormai impossibile, ma lo sciopero contro la violenza maschile è stato in ogni angolo del mondo il nome del nostro desiderio di essere forti, di rovesciare la società che ci violenta. Noi pensiamo che sciopero sia ancora il nome di questo desiderio sovversivo. Non è un rito, ma una sfida per darsi parole condivise capaci di farci essere ogni giorno una di più, di generare organizzazione, di riconoscere che le differenze che ci distinguono, ci isolano e ci indeboliscono sono il prodotto di rapporti di dominio razzisti e sfruttamento che dobbiamo rovesciare se vogliamo mettere fine alla violenza maschile. Su questa sfida ci confronteremo a Bologna dal 27 al 29 ottobre, con decine di altre compagne provenienti da ogni parte d’Europa e oltre che si incontreranno per il prossimo meeting della TSS Platform. Questa sfida noi vorremmo discuterla a Firenze durante la prossima assemblea di NUDM. Se questa assemblea vuole rispondere al grido femminista e transfemminista che abbiamo sentito di nuovo nelle piazze dopo questa estate di violenza, deve avere il coraggio di pensare oltre la fatica della militanza e l’impotenza individuale, sapendo che la nostra forza può essere solo collettiva e che lo sciopero è la nostra possibilità di essere forti.