Peschiera: uomini sul treno della violenza e del razzismo

Il 2 giugno cinque ragazze tra i quindici e vent’anni sono state aggredite da un gruppo di giovani maschi di origini nordafricane che le ha bloccate sulla carrozza di un treno affollato, palpeggiate e sbeffeggiate perché bianche. Tutto normale: le molestie sessuali sono parte ordinaria della socialità di grandi e piccini. L’uso di un linguaggio razzista da parte di chi quotidianamente lo subisce – ‘su questo treno le italiane non possono salire’ ‒ serve a marcare il territorio. Trattare una donna come un oggetto – tanto più se osa andare in giro da sola e senza tutori – serve a sentirsi ‘veri uomini’. Tutto normale, per chi accetta che la violenza maschile sia un fatto di cronaca con cui bisogna rassegnarsi a fare i conti quotidianamente.


Poi c’è il fatto che quei giovani maschi erano figli di migranti e tornavano a casa dopo un grande raduno intitolato ‘l’Africa a Peschiera’, lanciato su TikTok, a cui hanno partecipato centinaia di ragazze e ragazzi e che si è concluso con una serie di atti di vandalismo e la polizia in assetto antisommossa. Perciò la cronaca si trasforma in un’occasione per dar voce alle peggiori pulsioni razziste e autoritarie che denunciano l’inaspettata invasione barbarica: ‘farla finita con le baby gang delle seconde generazioni’, ‘reintrodurre la leva obbligatoria’, ‘aumentare le pene per i minorenni’! Sono affermazioni che non ci stupiscono, visti gli attori di questa vicenda. Ci saremmo stupite, dopo le denunce di molestie da parte delle donne che le hanno subite a Rimini, se le autorità avessero detto: ‘farla finita con le adunate degli Alpini’, ‘abolire il cameratismo militare’, ‘aumentare le pene per le forze armate’ che palpeggiano le donne mentre si affogano nell’alcol! Questo però non è successo. La violenza maschile è trasformata in scandalo soltanto quando a commetterla sono i migranti di vecchia e nuova generazione, e così nel silenzio generale si moltiplicano le operazioni razziste di prevenzione del crimine nei centri delle grandi città, dove la polizia scheda preventivamente ragazzi e ragazze sospettati di poter compiere atti criminali di disturbo alla ‘movida’ solo perché hanno la pelle scura e vengono dalle periferie. Quando si tratta di rispettabili padri, mariti, compagni, figli maschi o corpi militari di cui essere fieri nell’onnipresente inno alla famiglia e alla guerra, però, ci sarà sempre qualcuno pronto a giustificare l’eccesso in nome della regola che comanda alle donne di essere oggetti disponibili senza fiatare, altrimenti le prendono. Tutto normale.


Alla fierezza autoritaria e all’onore patriarcale ferito di sindaci, governatori e politicanti che invocano punizioni per non sentirsi spodestati da quelli che osano violare ‘le loro donne’ seguono poi le inchieste sociali della stampa caritatevole, impegnata a rimarcare la ghettizzazione culturale dei e delle giovani migranti senza mai dire una parola sulla loro ordinaria integrazione nella società italiana attraverso il razzismo istituzionale, le leggi che lo sostengono e i padroni che ne approfittano. Si parla allora della rabbia delle seconde generazioni condannate a non essere mai davvero ‘italiane’, i cui atti vandalici contro la proprietà privata e la cui violenza contro le donne esprimerebbero il risentimento contro un mondo di merci e piaceri di cui non potranno mai godere, e non dovrebbero nemmeno sperare di poter godere. Magari la violenza contro le donne, che li fa diventare parte della grande ‘nazione’ patriarcale che non ha confini né frontiere, può essere per alcuni uomini un risarcimento, una riserva di potere alla quale attingere quando la povertà e il razzismo li condannano a sentirsi impotenti. Ma questo di sicuro non li scusa, come non giustifica tutti gli italianissimi imprenditori e professionisti – sempre ammirati dalla stampa quanto disprezzati sono i ‘manovali di periferia’ migranti ‒ che stuprano e ammazzano e abusano le donne pensando che non solo il loro sesso, ma anche il loro denaro li autorizzi a farlo.


Di fronte a tutto questo prendere posizione significa sapere che anche chi subisce l’oppressione può praticarla. Significa rifiutare le soluzioni semplici, che si tratti di pene esemplari o della pedagogia progressista proposta da chi dice che bisogna educarli fin da piccoli a scuola o nei centri di accoglienza, perché le pene esemplari sono espressioni dell’autoritarismo patriarcale e la pedagogia progressista apertamente ignora le condizioni materiali che alimentano la violenza. Il patriarcato funziona bene anche perché riesce a nascondersi dietro al colore della pelle e ai rapporti di classe. Noi donne migranti e lavoratrici però sappiamo, e continueremo a ripeterlo, che la violenza contro le donne non ha colore, né cultura, ha solo un sesso. E sappiamo che, anche quando non scende in piazza in massa e non prende parola con la forza di una marea femminista, il rifiuto della violenza maschile è continuamente praticato dalle donne che vogliono essere libere e per questo vanno in giro da sole sui treni e per le strade, combattono per non essere oppresse e sfruttate nelle case e sui luoghi di lavoro, lottano muovendosi attraverso i confini e per non essere schiacciate dalla guerra. Una volta di più dobbiamo rivoltarci contro l’ordine insopportabile in cui il patriarcato giustifica il razzismo, il razzismo alimenta il patriarcato ed entrambi sostengono lo sfruttamento e la violenza.

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