Lo stupro è la minaccia a cui padroni e caporali sottopongono costantemente le lavoratrici, che sono obbligate ad accettare in silenzio molestie continue, verbali e fisiche, e la richiesta di una completa disponibilità sessuale se vogliono riuscire a ottenere il rinnovo dei documenti e un salario misero (3 euro l’ora, con pagamenti discontinui e differenziati a seconda di una precisa gerarchia tra le diverse ‘etnie’ messe al lavoro). Per tutte le lavoratrici agricole la violenza maschile diventa una leva per ottenere disciplina sul lavoro e ridurre i salari, ma anche per obbligarle a lavorare senza alcuna protezione in condizioni insalubri. Alcune raccontano che il razzismo serve a giustificare le molestie sessuali e gli stupri, perché soprattutto le donne sole con figli, in quanto migranti, sono considerate pienamente accessibili da padroni e caporali. Il permesso di soggiorno funziona come un ricatto che le espone ulteriormente alla violenza maschile, mentre le istituzioni locali cercano di tenere queste situazioni nascoste per trasmettere un’immagine ‘accettabile’ dello sfruttamento nei campi. Nei loro racconti, queste donne lavoratrici migranti parlano dell’ostinata resistenza quotidiana che oppongono a questi regimi di oppressione e sfruttamento.
Noi abbiamo il problema di produrre un’iniziativa femminista capace di rendere visibili politicamente condizioni di vita e lavoro come queste, che rischiano di rimanere nell’ombra proprio a causa del modo in cui la violenza maschile si intreccia al razzismo e sostiene lo sfruttamento, e di creare uno spazio di lotta in cui queste esperienze singolari di resistenza possano trovare voce collettiva. Questa è la sfida ineludibile verso la manifestazione nazionale del 27 novembre contro la violenza maschile, una sfida che il femminismo deve raccogliere per far risuonare forte il grido Non Una di Meno.
Link all’inchiesta: https://back.weworld.it/…/2021/10/Ricerca-AgroPontino.pdf