Una volta si chiamava reazione padronale. Non vediamo alcun motivo per cambiarne il nome. L’uccisione di Adil, lavoratore migrante e coordinatore provinciale SI Cobas di Novara, non viene da un gesto sconsiderato. È l’effetto di una fame di profitto che si è fatta più accanita in tempo di pandemia. Una fame che non si ferma di fronte alla linea della vita e la sfonda trascinandola per una decina di metri per poi darsi alla fuga. La chiamano resilienza.
Dietro l’investimento di Adil c’è la pressione padronale sui lavoratori, migranti e non, precari o dipendenti, su tutti quelli che in questi anni hanno convinto di essere imprenditori di se stessi, per realizzare i guadagni mancati per i lockdown, per far quadrare i conti e coprire le perdite. Una pressione che mette i lavoratori uno contro l’altro, in una violenta competizione che arride a chi intasca profitti. Dietro l’investimento di Adil c’è l’idea confindustriale che in tempi di emergenza ogni interruzione della produzione è una colpa da punire. Come dire: vi lasceremo scioperare un giorno, quando lo sciopero rientrerà nella normalità delle cose che lo renderà inoffensivo o, al limite, un risibile contrattempo sulla tabella di marcia; o magari organizzatevi per uno sciopero “in presenza”, di quelli che vanno di moda oggi, in cui si sciopera continuando tranquillamente a lavorare. Ma ora no, toglietevelo dalla testa, come uno stagionale dovrebbe togliersi dalla testa l’idea di chiedere quanto verrà pagato. Eppure, il motivo dello sciopero e dei picchetti sta proprio nel tempo di emergenza che il recovery plan continua a riprodurre. Sta cioè proprio nella liberalizzazione del subappalto decisa da Draghi per velocizzare la ripresa e che colpirà duro un settore come la logistica che di subappalto vive e prospera. Un settore che è sempre stato sul bordo di una legalità facilmente eludibile, come sanno i richiedenti asilo che in questi anni hanno arricchito i giganti della logistica con lavori a chiamata e sotto ogni genere di condizione.
Dietro l’uccisione di Adil c’è allora l’idea che l’unica cosa che resta ai lavoratori dovrebbe essere una rassegnata cooperazione ai desideri del padrone e al regime del salario. Cooperare a tutti i costi, in tutte le condizioni. Anche quando gli orditoi vengono manomessi per velocizzare il ritmo di produzione fino a inghiottire una ragazza di vent’anni, come è successo a Prato. Anche a costo di ricorrere a squadre di picchiatori, come è successo a Lodi contro gli operai organizzati dal Sicobas che lottavano contro la cancellazione dei loro posti di lavoro.
Sembra di raccontare storie di secoli fa. Il fatto è che il lavoro si è vestito di diritto ma continua a essere violenza contro quelli non possiedono altro che la propria capacità di lavorare. Anche quando non ricorre a gesti eclatanti, è una violenza quotidiana, calcolata, minuta, algoritmica. Lo sanno bene le donne e gli uomini che corrono nei magazzini di Amazon. Lo sciopero della logistica di domani sarà importante proprio perché darà voce a delle lavoratrici e a dei lavoratori che altrimenti sarebbero ridotti al silenzio. La voce del padrone può farsi educata e cambiare timbro, può usare linguaggi nuovi, ma ha sempre solo una storia da raccontare. Una monotona storia di violenza.