Le illusioni della sanatoria e la realtà politica del lavoro migrante

Il Covid-19 rende impossibile ignorare il lavoro migrante. Per mandare avanti la vita di quarantena milioni di badanti garantiscono la cura degli anziani, donne migranti puliscono ospedali, operai giunti da ogni parte del mondo fanno funzionare le fabbriche, i magazzini della logistica, fanno arrivare le merci nei supermercati e persino i cibi sulle tavole. In Italia come in Europa, in questa lunga primavera appesantita dal corona virus, governanti, imprenditori e grandi catene della distribuzione ripetono preoccupati che c’è bisogno di lavoratori migranti per lavorare la terra e raccoglierne i frutti. In questa situazione la ministra Bellanova, che ipotizza una sanatoria per regolarizzare chi non ha i documenti, è la peggior amica dei migranti, soprattutto di quelli impiegati in agricoltura che dovrebbero lavorare per miseri voucher. Bisogna diffidare di chi ti spinge al lavoro proponendo improvvisamente una sanatoria o una regolarizzazione in cambio del tuo sfruttamento più intensivo e magari della tua vita. Molti, come lei o diversamente da lei, hanno riscoperto la parola magica della sanatoria, che una volta nominata accende nei migranti speranze e li predispone a sacrifici di tutti i tipi. La sola voce di una sanatoria fa nascere un mercato drogato di titoli di residenza e di contratti di lavoro. Ciò nonostante anche all’interno della crisi sanitaria, si trova chi pensa che i migranti debbano essere sanati. Ma davvero ciò che oggi dobbiamo chiedere una sanatoria? Davvero possiamo permettere che la legge Bossi-Fini sia la normalità dello sfruttamento del lavoro migrante, affidando a una sanatoria o una regolarizzazione estemporanea la gestione dell’emergenza? Davvero i migranti devono essere “premiati” occasionalmente per qualcosa che fanno comunque tutti i giorni?

Sull’isola di Lesbo, migliaia di donne e di uomini lottano contro le politiche migratorie europee che li trattano come se fossero loro il virus. Su tutte le frontiere si sono aumentati i controlli, quelle esterne all’Europa sono serrate e il trattato di Schengen è sospeso. Quello che si è presentato come il governo della discontinuità ha deciso di dichiarare l’Italia un porto non sicuro. Sembrerebbe lo scenario ideale per tutti i sovranisti che odiano i migranti, eppure mai come adesso si chiede ai migranti di restare nei paesi dove sono arrivati per continuare a lavorare. Ora sono le braccia che garantiscono che il cibo arrivi nei supermercati e le mani che curano gli anziani… e poco importa che corrano il rischio di essere contagiati anche quando non lavorano perché sono ammassati nelle strutture di accoglienza. Chi vive in questi luoghi è in pericolo di contagio anche quando sta “a casa”. In Germania ci sono state rivolte e dovunque c’è insofferenza. I CRA francesi, in cui vivono centinaia di migranti, sono teatro di proteste e scioperi della fame da una decina di giorni, per ottenere una chiusura immediata dei centri e una ridistribuzione dei migranti in luoghi più sicuri. Il governo spagnolo ha dovuto chiudere i centri di identificazione ed espulsione. In Italia, il sovraffollamento dei centri come il Mattei di Bologna mette in pericolo la vita di migranti e operatori.

Al tempo del corona virus, molti migranti hanno perso il lavoro, altri sono costretti a usare le loro ferie per coprire la chiusura delle attività. Molti altri invece sono costretti a lavorare per un padrone che gli dà un salario misero e in uno Stato che gli dà un permesso di soggiorno che rimane breve e precario. In Emilia-Romagna, come in Lombardia, dalle strutture di accoglienza si va a lavorare tutti i giorni e tutte le notti, come e più di prima: cooperative e agenzie interinali utilizzano i richiedenti asilo per sostituire i lavoratori della logistica malati, assenti o in sciopero. Mentre la distribuzione dovrebbe essere limitata ai beni essenziali, i padroni dei magazzini vogliono che il lavoro continui per smistare merci di ogni tipo. Molte donne migranti lavoratrici domestiche si ritrovano da un giorno all’altro non solo senza lavoro ma anche senza casa, altre non sanno come sostenere i loro figli in mancanza di salario e senza sussidi e quindi sono costrette a lavorare a rischio di contagio.

Chi ha un permesso scaduto o in via di scadenza, chi ha ricevuto un diniego e attende l’esito del ricorso è abbandonato a se stesso, senza la possibilità di trovare un regolare contratto di lavoro, né una casa in affitto in cui proteggersi dal virus, in alcuni casi senza una valida tessera sanitaria. Attualmente le procedure per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno sono sospese, e i permessi in scadenza sono prorogati fino al 15 giugno. Ma, finita questa emergenza, sarà ancora richiesto avere un contratto di lavoro e un determinato reddito? Quando torneremo alla normalità, i migranti e le migranti che durante l’emergenza hanno perso il lavoro o hanno visto ridotto orario e salario dovranno ancora sottostare ai requisiti di legge per rinnovare il permesso? Cosa succederà ai tanti richiedenti asilo messi al lavoro per garantire i consumi “essenziali” di chi ha una casa per difendersi dal virus? Le commissioni territoriali considereranno le loro storie di sfruttamento come eroiche? Concederanno il diritto di restare? A quali condizioni? Che cosa se ne faranno i migranti e le migranti della normalità visto che loro vivono sempre nell’eccezione?

Molti hanno visto nella regolarizzazione in Portogallo una politica da seguire. In realtà, mentre cercava di controllare la diffusione del virus, il governo portoghese ha anche badato alle esigenze della raccolta nei campi visto che il permesso concesso varrà soltanto fino a luglio. Anche per altri governi europei in questo momento la necessità non è espellere, ma trattenere donne e uomini migranti la cui forza sta anche nella scelta di muoversi: tornare nel paese di provenienza o restarci, scioperare e assentarsi dal lavoro o rifiutare il lavoro a chiamata sono azioni individuali, ma praticate in massa che esprimono il rifiuto di lavorare in determinate condizioni, mettendo in gioco la propria vita per pochi soldi. Il governo italiano – come quello francese – sta cercando disperatamente di contrattare con l’est Europa la forza lavoro necessaria per far fronte alle esigenze della grande fabbrica verde del mezzogiorno e non solo. Gli accordi non tarderanno ad arrivare. Qualche forma di sanatoria magari verrà varata o più semplicemente saranno riaperte le quote di ingresso per lavoro stagionale e di cura. Misure temporanee, limitate e funzionali allo sfruttamento che coesistono con quelle europee di militarizzazione dei confini esterni. Per tutti questi motivi la rivendicazione di un permesso di soggiorno europeo incondizionato rimane centrale nella lotta transnazionale del lavoro migrante. Non è più possibile rivendicare la sanatoria in un solo paese sperando che gli altri governi europei seguano l’esempio portoghese o che queste misure possano essere applicate anche finita l’emergenza. Per sottrarre il lavoro migrante alla sua condizione di normale eccezione è necessario smontare il ricatto che le politiche europee impongono sulle vite dei migranti, sapendo che l’infame mercato che avviene sulla frontiera turca e i respingimenti nel Mediterraneo sono il presupposto del loro sfruttamento quotidiano. Solo un permesso di soggiorno europeo può farla finita con le normative europee e le legislazioni nazionali che fanno dipendere il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro e dal reddito. Solo in questo modo, dopo tante chiacchiere al vento di esponenti del governo, si può pensare seriamente di abolire le leggi Salvini e di farla finita con la Bossi-Fini: questa è la rivendicazione che dobbiamo avanzare se vogliamo che la regolarizzazione non riproduca la condizione dello sfruttamento del lavoro migrante.