Il Coronavirus non è uguale per tutti. Il razzismo dell’emergenza

Il Coronavirus non è uguale per tutti. Migranti e italiani, uomini e donne, tutti sperano di non ammalarsi. Politici e istituzioni non perdono però l’occasione per riaffermare quel razzismo che colpisce donne e uomini migranti come la peggiore delle epidemie.

Salvini, noioso e feroce come sempre, ha approfittato della situazione per ribadire che i migranti non devono sbarcare in Italia. Il governatore del Friuli ha sognato lager e ha quindi sostenuto che ai migranti irregolari deve essere imposta la quarantena. Zaia, governatore del Veneto, ha dato libero sfogo ai suoi istinti, dichiarando che, «come tutti sanno», i cinesi mangiano i topi. In Sicilia, il presidente della Regione pretende che i migranti a bordo della Sea Watch stiano in quarantena sulla nave prima di poter sbarcare. Nella democratica Emilia-Romagna, durante controlli di polizia, sono state platealmente imposte ai migranti mascherine sulla faccia, poco importa che nessuno di loro provenisse da zone ritenute a rischio. In Grecia, il governo sta approfittando della situazione per promuovere la costruzione di nuovi centri di detenzione per migranti. Dietro questi provvedimenti e dichiarazioni c’è l’ossessione razzista che vuole fare dei migranti un pericolo per la salute pubblica. Anche il governo fa la sua parte e blocca i corridoi umanitari con il Niger, nonostante chi vi accede sia sottoposto a visite mediche. Mentre esportiamo il virus nel cuore dell’Africa su un aereo di linea, il governo si preoccupa di inesistenti minacce sanitarie provenienti dal mare.

Sono stati vietati gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche. Anche se nei magazzini della logistica si continua a lavorare, sono stati proibiti gli scioperi. Le scuole sono chiuse, ma i genitori lavorano e nessuno si cura dei loro problemi. Mentre i grandi magazzini sono regolarmente aperti, le manifestazioni programmate da Nudm per il prossimo 8 e 9 marzo sono invece a rischio. Leggi e provvedimenti emanati sull’immigrazione negli ultimi mesi hanno decretato uno stato di insicurezza per i migranti che l’emergenza sanitaria ha solo aggravato. In questa situazione complessiva centinaia di migranti rimangono ammassati al centro di accoglienza di via Mattei in seguito alle misure che negli ultimi mesi hanno smantellato il cosiddetto sistema di accoglienza diffusa. Sappiamo, come denunciato anche nel corso della manifestazione del 15 febbraio, che al Mattei sono ospitati centinaia di richiedenti asilo, che lavorano all’Interporto di Bologna, la fabbrica della logistica che non dorme mai. A quanto pare, pur di avere a disposizione una forza lavoro da poter reclutare quando serve, i protocolli sanitari possono anche essere sospesi per i migranti, i quali vivono in condizioni di assembramento forzato e quindi rischiano più degli altri di ammalarsi. Questo aggrava una situazione resa già insostenibile da documenti precari che rendono complicato e non sicuro l’accesso alle cure mediche per chi è da mesi in attesa dei giudizi delle commissioni territoriali dell’asilo. La produzione in massa di clandestinità, unico risultato delle leggi Salvini, ha poi messo migliaia di migranti nella condizione di aver paura di essere denunciati se si rivolgono alle strutture sanitarie. Senza parlare del fatto che in molti casi sono le donne migranti quelle che devono farsi carico di “politiche di prevenzione” che, non potendo contare sui servizi pubblici, si basano sul lavoro di cura delle donne, salariato o gratuito, come sanno benissimo le moltissime lavoratrici che si sono trovate confinate in casa, o con un salario da fame, a causa della chiusura delle scuole e degli asili.

Il Covid-19 colpisce senza considerare il colore della pelle. Gli effetti dell’epidemia e della sua gestione politica sono invece diversificati. Sono effetti razzisti, come abbiamo detto e pochissimi hanno considerato, se non di fronte alle più eclatanti manifestazioni di violenza contro i presunti «untori cinesi». Sono effetti che intensificano lo sfruttamento del lavoro delle donne e che le hanno obbligate a rinunciare a una grande parte del salario per potersi prendere cura di figli e anziani. Sono effetti, soprattutto, che nella proclamata emergenza riproducono una nascosta normalità: quella fatta di disuguaglianza, gerarchie e sfruttamento. Quella che pretende che tutto il lavoro, come quello migrante, sia sempre disponibile: disponibile a fermarsi oppure a ricominciare a seconda degli interessi di padroni che hanno protestato molto contro l’emergenza e le perdite di profitto che ha comportato, e che ora potranno avere non soltanto un ritorno ordinato al lavoro, ma anche – come risarcimento – il divieto per i lavoratori e lavoratrici di scioperare.  

Per uomini e donne migranti e precarie, la normativa d’emergenza del coronavirus non è altro che la normalità caricata con più razzismo, violenza e sfruttamento. È per questo che non possiamo fare affidamento sul loro “ritorno alla normalità”, che è la quotidianità del ricatto permanente in cui viviamo. È per questo che non ci incantano con la loro “unità nazionale”, che è l’unità del governo con piccoli e grandi imprenditori che vivono del nostro lavoro sempre più povero e sfruttato. Mentre l’epidemia incalza, lottare per la libertà di movimento è quanto mai necessario e vitale.