Il 15 febbraio diverse centinaia di migranti hanno manifestato a Bologna contro il razzismo e lo sfruttamento, e tante sono state le donne presenti in prima fila per far sentire la loro voce. Al centro della manifestazione – organizzata dal Coordinamento migranti e dalle comunità migranti, e a cui hanno aderito tante realtà bolognesi e non solo – la fine della violenza sulle donne, che a partire dai paesi di provenienza e dalla Libia continuano a lottare contro abusi di ogni tipo; l’abolizione immediata delle leggi Salvini; il rifiuto delle condizioni di lavoro imposte ai migranti; e la denuncia del comportamento della commissione territoriale, di questura e prefettura di Bologna. Nei numerosi interventi che si sono susseguiti, i migranti e le migranti hanno affermato di non essere semplici vittime da proteggere né carne da lavoro, sottolineando che non basta essere contro Salvini a parole, ma bisogna agire concretamente e cancellare il pacchetto di leggi che ha reso ancora più precaria la loro esistenza allo scopo di favorire il loro sfruttamento. Non è un caso che nello stesso pacchetto ci sono leggi che attaccano il diritto di sciopero criminalizzando il blocco stradale, uno strumento di lotta che ha permesso di migliorare le condizioni di lavoro in molti magazzini dove lavorano soprattutto migranti, facendo emergere un sistema di sfruttamento cresciuto negli anni, soprattutto nel settore della logistica, con la complicità di grandi sindacati e autorità locali.
Come più volte ribadito in piazza, però, il pacchetto sicurezza è solo l’ultima delle leggi contro i migranti. La Bossi-Fini continua infatti a tenere sotto scacco la vita di milioni di lavoratori migranti legando permesso di soggiorno e contratto di lavoro. All’Interporto di Bologna, la grande fabbrica che non dorme mai tenendo svegli e al lavoro i migranti, si incontrano la legge Bossi-Fini e quelle Salvini, favorendo razzismo e sfruttamento in uno dei luoghi più importanti della produzione del Nord Italia. L’amministrazione cittadina e quella regionale non possono continuare a fingere di non sapere ciò che i lavoratori migranti hanno denunciato oggi in piazza. Non possono ignorare che un bel pezzo di ‘economia emiliana si regge su ritmi durissimi di lavoro, sulle offese razziste, sui contratti precari, sul ricatto del permesso di soggiorno. A rendere questa situazione ancora più pesante contribuisce il modo in cui questura e prefettura gestiscono la burocrazia dei rinnovi, ostacolando continuamente i migranti con ritardi e richieste arbitrarie di documenti. Lo stesso accade per i tanti migranti che attendono il pronunciamento della commissione territoriale per la loro domanda di asilo, costretti a lunghe attese, e nel frattempo cacciati dagli appartamenti dell’accoglienza per essere ammassati al centro Mattei (l’ex Cie adibito ormai a dormitorio delle fabbriche e dei magazzini del bolognese). E mentre la cancellazione del permesso umanitario sforna nuovi clandestini, quelli che un tempo erano richiedenti asilo perdono il lavoro e finiscono per strada. L’unica via d’uscita da questa fabbrica della clandestinità è un permesso di soggiorno europeo senza condizioni. Un permesso di soggiorno che avrebbe salvato la vita a Vakhtang Enukidze, morto nel Cpr di Gradisca il 18 gennaio scorso.
D’altra parte, i migranti e le migranti in piazza hanno chiaramente mostrato che la spinta di libertà che li ha portati ad attraversare i confini non si ferma di fronte a leggi razziste e alle burocrazie oppressive. Hanno ribadito con forza la loro determinazione a continuare il percorso di lotta che li ha visti riunirsi in decine di assemblee, che li ha portati a manifestare il 15 febbraio e che porterà molte migranti a partecipare allo sciopero femminista e transfemminista del prossimo 8 e 9 marzo. I migranti e le migranti stanno dimostrando praticamente la verità della loro parola d’ordine: siamo libertà in movimento!