Da Ikea a Leroy Merlin, da McDonald’s ai magazzini dell’Interporto, negli ospedali, negli hotel e nelle case, la ricchezza di Bologna, e ciò che fa dell’Emilia-Romagna uno snodo centrale della logistica e della produzione di merci e servizi, si costruisce sullo sfruttamento del lavoro migrante. In tutti questi luoghi donne e uomini migranti vengono sfruttati quotidianamente da cooperative e agenzie che, grazie al contratto multiservizi e al decreto “Sblocca cantieri”, si spartiscono i profitti del lavoro migrante, in particolare di quello delle donne che ogni giorno puliscono e ripuliscono uffici, negozi e grandi centri commerciali. I colossi della distribuzione vendono l’immagine pulita di chi mette al centro la famiglia, l’ambiente e la diversità culturale, ma lo fanno imponendo orari che impediscono alle lavoratrici di avere una vita fuori dal luogo di lavoro e di vedere i loro figli, imponendo ritmi estenuanti, condizioni spesso insalubri e pagando quella diversità culturale la miseria di 4 euro all’ora. Molte di queste lavoratrici hanno regalato anni e anni della loro vita a queste aziende e a questo paese ma sono senza cittadinanza, ricattate dall’obbligo del rinnovo del permesso di soggiorno, mentre il salario diminuisce anno dopo anno, nonostante l’anzianità acquisita.
In che condizioni lavorano queste donne? Part-time che nei fatti sono sempre full-time; turni spezzati senza che le lavoratrici possano tornare a casa tra un turno e l’altro perché il tempo a disposizione è poco e i mezzi di trasporto mancano; ore supplementari di lavoro pagate come ore normali, anche quando includono la domenica, straordinari non pagati perché considerati «lavoro supplementare», ferie e malattie non concesse o contate come assenze, che si traducono in sottrazione di salario dalla busta paga o, come nel caso degli assegni familiari consegnati in ritardo dalle aziende, nel trattenimento illegittimo di parte del salario. Mentre sono impossibilitate a gestire i propri tempi di vita, le lavoratrici migranti della grande distribuzione sono obbligate a fare altri lavori per arrivare a fine mese. Spesso sono costrette a passare dalle pulizie nei centri commerciali o negli alberghi a quelle nelle case, in cui sono isolate e esposte agli abusi di chi le assume.
Oltre agli orari incompatibili con una vita libera, oltre ai salari da fame e al controllo dei capi e dei responsabili di settore, le aziende riservano alle lavoratrici migranti trattamenti degradanti: all’Ikea, al McDonald’s, al Carrefour, solo per citare alcuni esempi, negli uffici, negli hotel e negli ospedali le donne migranti che lavorano anche da 15 anni nello stesso posto, che vivono qui anche da 30 anni o ci sono nate, che sono costrette a lavorare in condizioni di sicurezza precarie, a svolgere mansioni logoranti, devono spesso subire gli insulti dei capi di area, gli abusi di potere e il razzismo esplicito dei responsabili. I datori di lavoro utilizzano inoltre un sistema di premi e ricompense per innescare dinamiche di divisione e di conflitto che servono a tenere a bada il diffuso malcontento verso una situazione di sfruttamento che riguarda tutte e tutti: si promettono turni migliori o miglioramenti di posizione a chi sta in silenzio, solo per indebolire chi trova il coraggio di opporsi alla trappola.
È l’organizzazione stessa del lavoro ad essere esplicitamente razzista: infatti le grandi aziende e le srl in appalto dividono le lavoratrici a seconda dei paesi di provenienza distinguendo su questa base mansioni e gerarchie. Subiscono pressioni per lavorare di più, più efficientemente e più velocemente, mentre devono essere sempre gentili e disponibili con i clienti e coi datori di lavoro. Il tutto con la minaccia sempre presente del cambio di mansione, della diminuzione delle ore o del licenziamento. Inoltre, come accade con grande frequenza, le società appaltatrici possono sempre essere sostituite da altre, per modificare le condizioni di lavoro, senza che le lavoratrici ne siano neppure informate. Le cooperative o le s.r.l. possono cambiare nome quando conviene loro e utilizzare il lavoro a chiamata per sostituire chi non ci sta.
Tutto questo diventa una trappola di fronte all’obbligo di rinnovare il permesso di soggiorno sancito dalla Bossi-Fini; diventa una trappola quando i documenti per il ricongiungimento familiare limitano la libertà delle donne che vogliono vivere una vita indipendente da mariti e famiglie; diventa una trappola per via degli assurdi requisiti per l’ottenimento della cittadinanza. Il razzismo istituzionale delle leggi e delle questure che le applicano spesso in modo arbitrario e restrittivo rende possibile e facilita uno sfruttamento che le lavoratrici migranti non hanno più intenzione di sopportare in silenzio. Di fronte all’insulto razzista, al commento umiliante, all’allungamento informale dell’orario di lavoro o agli straordinari non riconosciuti queste donne non sono più disposte a portarsi la rabbia a casa!
Mentre le leggi Salvini hanno criminalizzato il dissenso e lo sciopero nei luoghi di lavoro, i sindacati confederali sono diventati semplici mediatori, più attenti a mantenere buoni rapporti con le aziende che a migliorare le condizioni di chi è sfruttato. Spesso si fa esperienza di sindacati che finiscono per accordarsi con l’azienda, che invitano a ragionare mentre sono buoni solo a scendere a compromessi sulla pelle delle lavoratrici. D’altra parte, è con il consenso dei sindacati che molte di queste operaie si ritrovano oggi un contratto multiservizi che lascia ai datori di lavoro grandi libertà di gestione degli orari, delle paghe e delle condizioni di lavoro.
In molti di questi luoghi le lavoratrici e i lavoratori hanno lottato, scioperato, bloccato e dimostrato che senza di loro questi colossi commerciali non potrebbero neppure aprire i battenti al mattino. Quando non hanno pagato con il licenziamento lo sciopero, sono state costrette a adeguarsi alle tiepide concessioni raggiunte con gli accordi tra sindacato e aziende, spesso rimesse in questione dalla cooperativa o dalla srl successiva.
Nonostante l’arroganza dei padroni, nonostante l’indifferenza e l’inaffidabilità del sindacato, queste donne vogliono organizzarsi. Contro le divisioni alimentate dalle aziende, dal razzismo istituzionale, e dai contratti vogliono creare un fronte compatto insieme a tutti i migranti che si stanno mettendo in movimento. Queste lavoratrici hanno scoperto che c’è un Salvini in ogni luogo di lavoro, che da anni i padroni spianano la strada alla politica razzista, sfruttando e neutralizzando ogni protesta. Sono stanche dei compromessi, di ingoiare la rabbia, di non avere più una vita e di farsi maltrattare da chi pensa di avere il diritto di trattarle come bestie. Queste donne sanno molto bene di essere indispensabili per queste aziende e hanno intenzione di farlo pesare per rompere la trappola dello sfruttamento razzista.
Per questo il 15 febbraio queste lavoratrici scenderanno in piazza con il Coordinamento migranti per prendere parola e mostrare che non sono né vittime, né carne da lavoro, che la loro rabbia è anche la forza di rompere con chi le vuole zitte e al loro posto. Per dire a chi conta sul loro silenzio per fare profitti che dovrà fare i conti con le loro rivendicazioni. A partire dalla lotta per un permesso europeo e incondizionato queste donne invitano tutte le lavoratrici e i lavoratori migranti e non a manifestare contro tutti i Salvini che sono nei luoghi di lavoro.