Il 18 gennaio, nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, Vakhtang Enukidze, un migrante georgiano, è morto ammazzato di botte. I giornali dicono che Vakhtang le botte se le è andate a cercare in una rissa, mentre decine di testimoni, tra cui i suoi compagni di reclusione, dicono che le botte gliele hanno date gli agenti di polizia. Una cosa sappiamo per certo: quando Vakhtang è morto i migranti nel centro stavano protestando da giorni, in molti tentando la fuga, scappando dal destino del rimpatrio e dall’inferno di mesi di vita sprecati tra quelle mura, e la polizia è intervenuta con cariche violente. E sappiamo anche un’altra cosa: Vakhtang è morto perché non aveva i documenti. Perché in Italia la politica delle commissioni territoriali è di negare il più possibile i documenti ai richiedenti asilo e quella delle questure di ostacolare – e ritardare – il più possibile il rilascio o il rinnovo del permesso per lavoro. Perché in Italia se un migrante non ha i documenti finisce in una prigione amministrativa chiamata Centro per il rimpatrio, che ai migranti toglie con la violenza – e a volte con la morte – quello per cui hanno lottato: la libertà di movimento. Vakhtang è morto di mancanza di permesso di soggiorno, perché anche di questo i migranti muoiono in Italia.
Il Cpr di Gradisca, aperto da appena un mese, era d’altronde l’ennesimo esempio della «discontinuità», annunciata trionfalmente dal nuovo governo e dalla ministra Lamorgese, ma che per ora si è vista solo nell’aver rimpatriato più migranti di quanto abbia fatto Salvini. Tra i quali, con uno zelo davvero sorprendente, i compagni di camera di Vakhtang, testimoni della sua morte, immediatamente rispediti in Egitto qualche giorno dopo i fatti. In realtà, in perfetta continuità con il decreto Minniti-Orlando, che prevedeva un Cpr in ogni regione, e con il primo decreto Salvini, che ha allungato i tempi di permanenza da 90 a 180 giorni, Lamorgese non solo ha confermato i trattati con la Libia, ma ha rilanciato la politica delle reclusioni e delle espulsioni e l’apertura di diversi nuovi Cpr. Queste nuove aperture completano un piano complessivo che punta a tenere i migranti in uno stato di precarietà e di povertà, a confinarli in uno spazio sempre più ristretto, limitato alla gabbia dell’accoglienza, allo sfruttamento sul lavoro o al rischio perenne di essere reclusi e poi espulsi. Il Coordinamento Migranti ha denunciato più volte come la politica dei dinieghi, la difficoltà ad ottenere documenti in tempi rapidi, il gioco congiunto di commissioni territoriali, prefetture, questure e comuni che richiedono documenti non previsti dalla legge, rendono la vita dei migranti un’attesa nell’assoluta insicurezza e sempre sulla soglia della clandestinità. Per chi attraversa quella soglia, invece, il destino è la reclusione e infine il rimpatrio. I Cpr, quando non ammazzano, sono l’ultimo ingranaggio di un meccanismo di selezione dei migranti che serve a produrre continuamente una forza lavoro da ricattare e da sfruttare e che rende la loro vita impossibile. Nei Cpr marciscono le vite dei migranti di scarto, donne e uomini superflui che non vale più la pena sfruttare, ma servono anche a ricordare a tutte e tutti i migranti quale destino li attende oltre la soglia della clandestinità.
Il governo intimidisce, ma i migranti lottano. Usa i Cpr per fare paura, ma la resistenza dei migranti non si arresta, dentro e fuori dai centri. Vakhtang, come tanti prima di lui in mare, in terra, nei centri di reclusione, ha pagato le sue aspirazioni e la sua libertà con la morte. Per questo la rabbia di tante donne e uomini per la perdita di un fratello e la loro lotta contro i Cpr è parte della nostra lotta per la libertà di tutte e tutti i migranti.
Il 15 febbraio a Bologna saremo in piazza anche per ricordare Vakhtang e per chiedere la chiusura di tutti i Cpr. Saremo in piazza per ricordare che non si può morire per mancanza di permesso di soggiorno.
Non potete fermare la libertà in movimento!