«Io sono arrivato qui vivo, e continuerò a vivere anche se non firmo questo contratto»
D. ha risposto così all’agenzia che gli ha proposto un contratto di lavoro all’Interporto di tre ore al giorno. Tre ore al giorno in magazzino e due ore di bicicletta per andare e tornare dal lavoro, perché i soldi sono troppo pochi per spenderli nel trasporto, e passare il resto del giorno in un centro di accoglienza. Per questo D. si è rifiutato di firmare quel contratto, perché non è più disposto ad accettare lo sfruttamento, i salari da fame che non bastano per prendere una camera in affitto, i lunghi viaggi al freddo a qualsiasi ora del giorno e della notte per essere sempre disponibile ogni volta che il padrone chiama.
D. lavorava già da tre anni per la stessa azienda, che gli prometteva ogni volta condizioni migliori. È il solito gioco di padroni e agenzie: all’Interporto continuano a promettere ai migranti che se non si lamentano dei ritmi di lavoro e delle ore di straordinario non pagate le cose possono migliorare. Sappiamo che padroni e agenzie approfittano dei documenti precari dei migranti e che molti non hanno altra scelta che accettare quelle condizioni di lavoro perché altrimenti perdono il lavoro e poi il permesso.
Ma la storia che D. ha raccontato all’assemblea del Coordinamento Migranti e delle associazioni e comunità migranti dimostra che rifiutare il comando dell’Interporto è possibile. Il coraggio di D. è il coraggio di tutti i migranti e i richiedenti asilo che non sopportano più di lavorare a chiamata o con contratti precari per un salario misero. Per questo è giunto il momento di rompere l’isolamento e prendere parola insieme contro sfruttamento e razzismo: l’Interporto è una grande fabbrica che non esiste senza migranti.