VOCI DALLA GRANDE FABBRICA DELL’INTERPORTO/2

«N*gro di merda»: parole che i migranti che lavorano all’Interporto si sentono dire mentre scaricano pacchi o caricano i muletti. Dopo la denuncia pubblica di M. al capoturno razzista che abbiamo pubblicato, un altro lavoratore migrante, che chiameremo C., ha trovato il coraggio di raccontare la sua storia di ordinario razzismo dei magazzini all’assemblea del Coordinamento migranti e delle associazioni e comunità migranti.

Lo scorso anno C. lavorava a chiamata in un magazzino. Appena arrivato sapeva già usare il muletto e aveva il patentino per farlo. “Ma può un nero imparare così velocemente un lavoro da bianco?” Deve aver pensato così quel lavoratore a tempo indeterminato che, insospettito da un nero che guida un muletto, ha intimato a C. di mostrargli il patentino. Una provocazione, ma C. non ha abbassato la testa in silenzio. Ha risposto a tono e gli ha chiesto di mostrargli il suo di patentino. In cambio si è preso in piena faccia un «n*gro di merda». «So di essere nero, ma non c’è nessun n*gro di merda», ci dice C. L’insulto razzista ha fatto male ma C. non lo ha denunciato, semplicemente si è rifiutato di lavorare con un razzista.

Da allora, e sono passati pochi mesi, C. ha cambiato più lavori, attende il ricorso dopo il diniego della Commissione territoriale e oggi lavora in un altro magazzino dell’Interporto, ma non più a chiamata. Non basta però scandalizzarsi perché il razzismo, violento e sfacciato, esiste ancora. Il razzismo è infatti uno strumento che serve a governare il lavoro migrante: serve a intimidire donne e uomini migranti, a tenerli al loro posto, a dividerli dagli altri lavoratori. Il razzismo non è fatto solo di parole che insultano i neri e suonano sporche all’orecchio dei bianchi, ma segna gerarchie che girano attorno ai documenti, diversi uno dall’altro ma tutti da rinnovare, che i migranti tengono in tasca.

Partendo da qui, da un razzismo che fa parte della giornata lavorativa dei migranti, racconteremo e denunceremo nei prossimi giorni in che modo i lavoratori migranti vengono impiegati e sfruttati nei magazzini nella grande fabbrica dell’Interporto e, in particolare, come i richiedenti asilo siano diventati le prede di un lavoro a chiamata invisibile perfino ai sindacati.