Noi, richiedenti asilo e migranti rifugiati dei centri di accoglienza di Bologna, siamo scesi in piazza insieme alle studentesse e agli studenti migranti perché dall’inferno libico siamo fuggiti e non ci vogliamo più tornare. In Libia gli schiavi non sono solo quelli venduti all’asta. La schiavitù l’abbiamo vista tutte e tutti noi costretti a lavorare per chi a caro prezzo ci porta in Europa, noi che siamo sfuggiti alle violenze, alle minacce e agli stupri legittimati dagli accordi italo-libici e che ora ci ritroviamo dentro la gabbia dell’accoglienza, che per molti di noi ha solo una via d’uscita: la clandestinità e l’espulsione. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, per lo Stato italiano e l’Unione europea non siamo “degni” di avere una protezione umanitaria!
Superato il Mediterraneo, inizia infatti un’altra traversata qui in Italia, la terra del razzismo istituzionale. Viviamo per mesi in strutture lontane dai centri cittadini, senza sapere nulla della nostra domanda di asilo e perfino senza il permesso di soggiorno provvisorio che pure ci spetta di diritto. Alcuni di noi non hanno neanche un posto dove dormire: di inverno finiamo nelle strutture del piano freddo, ma quando a marzo chiudono, ritorniamo a dormire per strada e nei parchi. Viviamo una vita sospesa, di un presente che non passa mai perché non c’è futuro. La chiamata dalla commissione territoriale arriva spesso dopo un anno. Un’attesa infinita e poi non ascoltano neanche le nostre storie, o fanno finta di non sapere che la violenza segna le rotte migratorie dall’inizio alla fine. Capita perfino che noi donne richiedenti debbano raccontare la propria storia di violenza a commissioni composte da soli maschi, che ci credono “furbe” e alla fine si schierano dalla parte degli stupratori. Donne o uomini, il responso è comunque quasi sempre lo stesso: il diniego. Fuggiamo dalla violenza e dalla miseria e finiamo nella clandestinità. Con il ricorso a volte riusciamo a ribaltare i pareri delle Commissioni, ma con il decreto Minniti-Orlando ci hanno tolto anche la possibilità di ricorrere in appello, che pure spetterebbe a chiunque.
Il fatto è che noi richiedenti asilo e rifugiati non siamo considerati uomini e donne come gli altri. Qui in Italia non siamo schiavi, è vero, ma siamo merci. Merci di scambio quando il governo italiano va a trattare con l’Unione Europea per avere “sconti” sulle sue politiche economiche. Merci dell’accoglienza per le cooperative che fanno profitti sulla nostra pelle. Merci che improvvisamente diventano “persone” quando accettiamo di lavorare gratis nei servizi socialmente utili o lavoriamo per pochi euro nelle campagne, nel montaggio palchi, nel lavoro domestico, nella logistica e in tutti quei posti di lavoro in cui ci possono sfruttare meglio. Viviamo una vita sotto ricatto e sotto minaccia. Agli operatori viene chiesto di segnalare chi di noi è disponibile a lavorare gratis, perché la disponibilità allo sfruttamento viene valutata positivamente dalle commissioni territoriali. Ma questo non ci salva dal diniego. Quando non siamo trattati come delinquenti e parassiti, diventiamo solo storie di “integrazione democratica” per i giornali, “risorse” per chi ci sfrutta a fini economici o elettorali, mai donne e uomini liberi.
Sappiamo che questo ricatto non colpisce solo noi. Ci usano per metterci al lavoro nei posti occupati dai migranti che sono arrivati in Italia prima di noi e che dipendono dal permesso di soggiorno per lavoro regolato dalla legge Bossi-Fini. La nostra condizione di rifugiati è ancora più precaria della loro: la nostra permanenza in Italia è a tempo determinato. Quando non serviamo più, le imprese e le cooperative possono liberarsi di noi ancora più facilmente. Altri migranti prenderanno il nostro posto, in una catena del razzismo e dello sfruttamento che sembra non avere fine.
Non possiamo più stare in silenzio. In via Mattei e altrove abbiamo già protestato contro questa cosiddetta accoglienza. Non dobbiamo farci dividere da chi vuole distinguere tra rifugiati e migranti economici. Dobbiamo unire le nostre lotte, perché comune è il ricatto dei documenti che viviamo ogni giorno. Per questo abbiamo risposto in tante e tanti alla chiamata degli studenti migranti. La Libia ce la portiamo dietro dovunque andiamo, perché il confine per noi non finisce mai. Liberarsi dal confine significa per noi lottare contro il razzismo istituzionale delle commissioni territoriali e delle questure, contro un’accoglienza che vuole controllare i nostri movimenti, per un permesso di soggiorno europeo incondizionato per essere libere e liberi di muoverci!