Libere di muoverci, libere dalla violenza

Il 2 dicembre noi donne migranti ci siamo riprese la piazza e il megafono per far sentire la nostra voce. Abbiamo manifestato contro la schiavitù e gli accordi con la Libia perché quello che da tempo accade a chi sceglie di partire è inaccettabile. Abbiamo manifestato perché la violenza che troviamo in Libia ci insegue lungo tutto il nostro viaggio e continua in Europa. Abbiamo urlato contro una condizione che colpisce le donne in maniera ancora più pesante, che trasforma il nostro viaggio per la libertà in una guerra contro di noi. Per arrivare qui abbiamo lottato e, nonostante non avessimo mai smesso, il 2 dicembre siamo scese in piazza per lottare ancora.

Abbiamo preso il megafono perché abbiamo molte cose dire. Ognuna di noi lotta ogni giorno per ottenere e mantenere un permesso, per affermare le proprie scelte. Ogni giorno ci scontriamo con le facce sorprese di chi scopre che abbiamo delle ambizioni e dei progetti, di chi ci parla di «buona integrazione», senza sapere che tutto quello che abbiamo lo abbiamo ottenuto solo grazie alle nostre spalle larghe e alle nostre forze, anche contro chi vorrebbe prendere decisioni al posto nostro. Tutto questo è troppo spesso invisibile ed è ora di portarlo alla luce.  L’8 marzo molte di noi erano in piazza insieme a tante altre donne, anche migranti, per rivendicare la nostra libertà. Ma abbiamo ancora molto altro da dire, c’è una lotta collettiva che è ancora tutta da fare e il 2 dicembre si è aperto uno spazio per farlo.

Nell’università e sui posti di lavoro, di fronte alle commissioni territoriali e nei centri di accoglienza, essere donne e migranti significa scontrarsi con diverse forme di violenza. La violenza ci colpisce tutte in quanto donne, ma come migranti il razzismo dei confini, del permesso di soggiorno, delle questure, dell’accoglienza, delle istituzioni ci mette in una condizione di isolamento, in cui siamo sole ad affrontare e a sconfiggere la paura. In Libia questa violenza ha la forma più brutale dello stupro, il cui frutto sono a volte i bambini che arrivano con noi. È il prezzo altissimo che siamo costrette a pagare per attraversare il confine e ottenere la libertà che cerchiamo. Quando scegliamo di partire stiamo già affermando una libertà che non ci è concessa e dobbiamo conquistarci. Tutto il nostro viaggio è una lotta per la libertà, contro chi pretende di decidere della nostra vita o di disporre del nostro corpo. Ma la violenza continua anche quando arriviamo in Europa.

Chi di noi arriva come rifugiata si trova ad affrontare commissioni territoriali che non ascoltano le nostre storie. Molte volte nelle commissioni non c’è nemmeno una donna e manca persino un traduttore. Le nostre storie di violenza vengono considerate “fantasie astute” da commissari maschi che non sanno nulla della nostra condizione e di quello che succede nei nostri paesi di provenienza. A una di noi dopo aver raccontato la propria storia è stato chiesto: «pensi di essere intelligente?» Vi rispondiamo qui. Non lo pensiamo soltanto, lo siamo. Forse alcuni si stupiscono o rispondono con il razzismo alle nostre storie perché sembra impossibile che siamo ancora qui dopo il passaggio in Libia o l’attraversamento di qualche altro confine, dopo gli interrogatori e i Centri per il Rimpatrio. Sembra incredibile che non ci siamo arrese, ma credeteci perché restiamo e non ci fermeremo.

Molte di noi sono partite per sottrarsi al controllo della propria famiglia. Abbiamo tenuto duro quando hanno cercato di controllarci con lo stupro e la violenza, con la polizia di frontiera, con gli interrogatori delle commissioni. Dovremmo accettare ora il controllo delle case famiglia che gestiscono l’accoglienza, dove ci trattano come bambine, ci danno orari, regole e una falsa protezione? 

Sulla nostra strada troviamo anche lo stupore degli operatori di tanti centri di aiuto. Sono sorpresi quando scoprono che in Africa abbiamo studiato e che una volta ottenuto l’asilo, dopo anni e anni di attesa, vogliamo iscriverci all’università. Lo stesso stupore lo incontriamo nelle aule universitarie, sui volti dei nostri colleghi e colleghe bianche, sempre attenti a non dire o fare qualcosa di “razzista”, salvo poi stupirsi se abbiamo buoni voti e credere che i professori siano più comprensivi con noi straniere.

Nei luoghi di lavoro, con o senza laurea, troppo spesso si dà per scontato che siamo le colf, le bidelle, le badanti, le donne delle pulizie. Facciamo questi lavori anche quando abbiamo altre ambizioni per poter essere indipendenti, per ottenere un permesso in un paese in cui per le donne migranti non c’è scelta: la libertà dipende da un pezzo di carta che ci incatena a determinati lavori, oppure ai mariti o ai padri, quando arriviamo tramite ricongiungimento familiare.

Ma questi lavori che molte di noi fanno con giusta fierezza, perché ci permettono di essere autonome, diventano un’identità cucita sulla nostra pelle. Anche quando siamo infermiere, psicologhe, studiose di storia siamo scambiate per addette alle pulizie. Non è solo un “razzismo di strada”, ma la condizione in cui le istituzioni ci mettono con il ricatto del permesso, i dinieghi e i ricorsi da fare contro le commissioni, la squalificazione dei nostri titoli di studio sul mercato del lavoro, dove il nostro “colore” fa la vera differenza dei nostri curricula.

Spesso, mentre camminiamo per strada, ci offrono del denaro e ci trattano da prostitute. Questo ci si aspetta da una donna nera che va in giro da sola. Per molte di noi la prostituzione è una condizione obbligata, altre invece la fanno per scelta. In tutti i casi, la paura e il ricatto del permesso ci ostacolano quotidianamente e ci impediscono di creare il nostro futuro. Siamo partite perché non vogliamo fare ciò che la società ci impone, essere a tutti i costi madri e mogli. Vogliamo poter essere “anormali”, come spesso ci definiscono le nostre comunità quando facciamo scelte da “cattive ragazze”, cioè quando semplicemente scegliamo di essere libere. Spesso il legame con la comunità è l’ennesima forma di controllo ed è un ricatto fortissimo da superare anche per donne che vogliono rompere le sue regole. A noi sembra assurdo che quando scegliamo cosa fare della nostra vita ci venga detto “ti credi bianca?”

Invece sappiamo quante bianche affrontano come noi la precarietà che le ricatta, la violenza in casa, al lavoro e in strada. Anche se viviamo condizioni molto diverse, come donne migranti rifiutiamo che le categorie di “bianche” e “nere” ci dividano definitivamente, impedendoci di fare l’unica cosa che dovremmo fare adesso: lottare insieme contro una violenza che vuole umiliarci per “rimetterci al nostro posto” e ridurci al silenzio. Anche il ricatto del permesso di soggiorno è una forma di violenza contro le donne: ci costringe a scegliere tra essere serve o prostitute, tra famiglia e sfruttamento. Lottare per il permesso di soggiorno significa lottare per la libertà di tutte le donne dalla violenza.

Le nostre lotte individuali, il coraggio con cui abbiamo affrontato il nostro viaggio, con cui continuiamo a sfidare le tante autorità che vorrebbero dirci che cosa fare – dalla famiglia ai governi italiani ed europei ai volontari della buona o della cattiva accoglienza – dobbiamo trasformarle in una lotta collettiva, per vincere la paura.

Pubblicato in “Senza chiedere il Permesso”, numero 0, 12/2017