Che il reddito dei padri ricada sui figli. Lo ius soli e il labirinto della cittadinanza

Dopo più di due settimane, il disegno di legge sulla cittadinanza torna in discussione in Senato, dove lo attendono migliaia di emendamenti contro cui il governo sembra intenzionato a mettere la fiducia. Il cammino parlamentare iniziato due anni fa era stato bruscamente interrotto non soltanto dal rumore assordante delle destre (e dall’astensione dei Cinque stelle), ma anche dalle caute parole, quando non dal silenzio democratico, di chi tra le fila del partito di maggioranza pensa di costruire il proprio consenso elettorale (e personale) facendo dell’accoglienza una parola buona per le piazze solidali, mentre nuove leggi, accordi bilaterali e ipotesi di blocchi navali tentano sistematicamente di fermare il movimento dei migranti in nome della sicurezza. Così, mentre il governo e la sua maggioranza sono intenti a costruire procedure legali di accoglienza, sfruttamento ed espulsione, le opposizioni leghiste a cinque stelle coadiuvate da proteste di gruppetti fascisti alimentano il razzismo popolare quale ricompensa per l’insicurezza sociale prodotta da anni di crisi economica, impoverimento e precarizzazione del lavoro. In questo gioco di complicità istituzionale, che le importanti manifestazioni dello scorso maggio hanno momentaneamente fatto saltare, il contenuto del disegno di legge sulla cittadinanza appare indiscutibile, sostenuto come è dall’associazionismo cattolico e laico, da gruppi anti-razzisti e di movimento. Da anni i migranti e le nuove generazioni rivendicano la cittadinanza senza condizioni sulla base del fatto che nascono o vivono qui, ma che cosa prevede il disegno di legge e a chi si rivolge?

Secondo le stime, se la legge fosse approvata, diverse centinaia di migliaia di figli di migranti diventerebbero cittadini. Non ci sfugge l’importanza di questi numeri perché per questi bambini e ragazzi diventare cittadini significa sfuggire al ricatto del permesso di soggiorno che da ormai più di venti anni costringe i loro genitori ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario pur di non diventare irregolari e rischiare di essere espulsi. Eppure il disegno di legge fermo al Senato non stabilisce affatto lo ius soli: non si diventa cittadini nascendo in questo paese come avviene ad esempio negli Stati Uniti. Al contrario la legge stabilisce due condizioni discriminatorie: chi arriva in Italia prima di compiere 12 anni deve aver completato un ciclo scolastico di almeno cinque anni oppure corsi per qualifiche professionali (ius culturae); chi nasce in questo paese può diventare cittadino soltanto se almeno un suo genitore è in possesso della carta di soggiorno o del permesso di lungo periodo (ius soli temperato). Documenti questi che vengono concessi soltanto avendo dimostrato cinque anni di residenza continuativa in una abitazione idonea e un livello di reddito adeguato al nucleo familiare. Si tratta di quegli stessi documenti che le Questure tendono a non rinnovare, se non alzando sempre di più l’asticella dei requisiti, perché per i migranti non ci sono diritti a tempo indeterminato, ma solo pezzi di carta precari che decidono del loro destino. Ecco allora che una legge sulla cittadinanza dei figli si trasforma in un uno strumento di ricatto per i genitori: se vuoi che i tuoi figli non debbano più subire il ricatto del permesso di soggiorno, fila dritto e a testa bassa, accettando un piano di integrazione fatto di docile sfruttamento e di non meglio precisati valori occidentali.

I migranti sanno fin troppo bene che silenzio e sacrifici in Italia non pagano. L’acquisizione della cittadinanza non è mai diretta e immediata, ma viene affidata ai tempi lunghi delle amministrazioni locali. Essa può infatti avvenire soltanto tramite dichiarazione di volontà, ovvero facendone richiesta all’ufficio dello stato civile del comune di residenza, lo stesso ufficio che – come nel caso del comune di Bologna – non riesce a smaltire se non dopo molto tempo le pratiche di giuramento che consentono ai migranti adulti di ottenere la cittadinanza. Rimane infine l’incognita di come sarà gestita la transizione con riferimento a quanti hanno maturato una di queste condizioni prima dell’eventuale entrata in vigore della legge. Non solo dunque le stime di quanti beneficeranno della legge sono tutte da verificare, ma soprattutto la nuova cittadinanza italiana nasce ricalcando e consolidando gerarchie e divisioni del tutto coerenti con il razzismo istituzionale imposto dal regime del permesso di soggiorno. È una cittadinanza amministrata che stabilisce regole sempre mutevoli in modo da poter selezionare fino all’ultimo momento quelli che hanno il diritto di restare sul suolo italiano. Una cittadinanza per reddito che stabilirà la differenza tra i minori di seria A ed altri destinati a lottare quotidianamente contro l’espulsione.

Non siamo allora di fronte a una svolta epocale, non assistiamo finalmente al riconoscimento del principio di uguaglianza della cittadinanza, del suo valore e portato universale. Piuttosto, siamo dinanzi al tentativo di integrare in modo selettivo e gerarchico le migranti e i migranti dentro una cittadinanza il cui significato politico e sociale è stato già ampiamente svuotato proprio della sua promessa universale. Non tutti i figli e le figlie dei migranti che nascono o arrivano in questo paese potranno diventare cittadini al compimento dei 18 anni, per la maggior parte di loro il futuro sarà vincolato alle capacità economiche del genitore che, se non avrà dimostrato di essere abbastanza diligente e disponibile al sacrificio, esporrà il figlio al ricatto del permesso di soggiorno, dell’irregolarità e dell’espulsione. L’integrazione democratica trasforma in risorsa e in profitto tutto ciò che tocca. Mai come in questo caso si può dire che i redditi dei padri ricadono sui figli: la mancata integrazione nel lavoro dei genitori produce la mancata cittadinanza dei figli. Così come un problema nel percorso scolastico può trasformarsi nella condanna del permesso di soggiorno. E tutto questo avviene su questo suolo e grazie al diritto: ius soli.

In altre parole, la cittadinanza si compra e si eredita assieme alla precarietà e allo sfruttamento che si deve affrontare per ottenerla. Una cittadinanza coerente con quella che vivono operai e precarie che, pur essendo italiani, godono spesso del privilegio di andarsene più che di restare, che ottengono benefici di welfare, previdenziali o sociali solo al prezzo altissimo di un continuo sfruttamento o di un impiego precario che si protrae a vita. Ovvero sono sì cittadini in quanto legittimi residenti, ma devono pagare e comprare il “contenuto” di quella cittadinanza che quindi è divenuta anche per loro una questione di reddito e di confine: un privilegio indispensabile per i migranti e uno status che per tutti, migranti e non, è legato allo sfruttamento e alla precarietà. La cittadinanza è un’arma spuntata con cui si combatte per scampoli di diritti, per allentare la schiavitù del salario, per sottrarsi alla coazione del reddito. Ottenere la cittadinanza oggi significa entrare in un labirinto senza uscita in larga misura costruito proprio sul modello del lavoro migrante, sulla sua disponibilità just in time: della «negritudine» non ci si libera per legge e, anche se viene stralciata dalla carta d’identità, si finisce per portarsela in tasca. Mentre per centinaia di bambini e ragazzi sembra materializzarsi un miraggio, l’attuale dibattito è così costruito come un indecente gioco delle parti sulla pelle dei migranti. Una trappola dalla quale fuggire nel nome della libertà di movimento e del diritto di restare, in Italia e in Europa. Chiedere uno ius soli incondizionato, e non una legge sulla cittadinanza per reddito, è invece per noi il modo per far saltare l’equazione cittadinanza-integrazione con cui si ricattano sfacciatamente i padri e le madri migranti di oggi, per sfruttare democraticamente i figli e le figlie italiani di domani. La libertà che i migranti ostinatamente perseguono è ormai anche quella di liberarsi dalla coazione all’integrazione.

 

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