Rastrellamento a Milano: accoglienza e barbarie

L’immigrazione è un problema troppo difficile per questo governo. A guardare le immagini raccapriccianti che arrivano dalla stazione di Milano, dove la polizia sta rastrellando chiunque abbia un colore della pelle più scuro della media, dobbiamo infatti immaginare che il ministero dell’Interno si stia attrezzando per fare dell’immigrazione uno spettacolo, un pezzo di teatro a uso di telecamere e iphone che certificano quanto il governo sia in prima linea nella lotta ai migranti che “bivaccano” – l’espressione è del giornalista del «Corriere» probabilmente confuso dalla casuale presenza di Salvini – in piazza Duca d’Aosta, usuale luogo di ritrovo dei richiedenti asilo a Milano. Che questi migranti siano magari da troppi mesi in attesa di un responso dalla Commissione territoriale sulla loro richiesta di asilo o che siano privi di un permesso di soggiorno perché alla Questura di Milano, come in tutte le questure d’Italia, è il razzismo istituzionale a gestire le vite dei migranti e a stabilire quanto tempo devono attendere per avere i documenti, passa sullo sfondo. In primo piano, in faccia alle telecamere, sta invece l’azione repressiva, l’esibizione dei muscoli in divisa blu, il celodurismo in salsa democratica, secondo la logica dello scambio indegno per cui l’immagine truculenta del migrante braccato e rimesso al suo posto, quello dell’ospite in castigo, dovrebbe risarcire l’italiano precario e impoverito dalla crisi, che altrimenti rischia di votare una Le Pen qualsiasi.
Per decreto si annuncia allora di riaprire i Cie, di rimpatriare migliaia e migliaia di migranti, si privano i migranti dei più basilari diritti civili – leggi il diritto all’appello – tutto a uso e consumo dello spettacolo politico che la compagnia di giro democratica sta portando sulle scene dopo il 4 dicembre: il governo politico dell’insicurezza, ovvero come neutralizzare l’insicurezza degli elettori dei “ceti sociali deboli” con gesti eclatanti e metterli sul conto dei migranti. Ecco l’altra faccia – quella reale – del discorso democratico che fa della sicurezza il correlato indispensabile dell’accoglienza: Minniti è in tour a diffondere questo verbo e le amministrazioni comunali – che siano a Milano o Bologna – si sperticano in lodi verso il ministro della sicurezza accogliente. Il risultato è che a Bologna l’amministrazione rimane in silenzio o fa promesse vuote quando l’accoglienza si risolve in lunghe – e insicure – attese sotto i ponti o per le strade. Questo silenzio diventa una farsa quando è poi il sindaco di Milano a lanciare per il 20 maggio una grande marcia per l’accoglienza.
D’altra parte, questa gestione teatrale dell’immigrazione non è certo priva di effetti reali. Il rastrellamento dei neri da parte della polizia alla stazione di Milano è lì a ricordarci che è in atto il tentativo di criminalizzare non il bivacco in sé, quanto piuttosto il fatto che i migranti possano essere visibili dove ci sono i turisti, ma soprattutto dove passano i pendolari. È questa possibilità stessa che va negata, per fare del migrante rifugiato o un candidato al lavoro precario o un candidato all’espulsione. Che esista o meno una terza possibilità dipende soltanto da noi. Non si tratta però di cercare alla Questura di Milano o al Ministero dell’Interno un attore che abbia le caratteristiche del kapò. È noto infatti che i kapò possono anche avere il volto di un funzionario che fa solo il suo dovere, ubbidendo agli ordini senza discutere. Incapace di uscire dalla logica dell’emergenza, il Ministero degli interni preferisce rinunciare direttamente all’accoglienza. Per fermare questa barbarie, dobbiamo a tutti i costi rovesciare contro questo governo dell’insicurezza la condizione migrante, che non può essere semplicemente rastrellata, perché la sua ingovernabilità non può essere ridotta a questione amministrativa o di polizia. È a partire dai migranti che può essere percorsa un’altra via, la nostra via alla sicurezza che parla di salario minimo europeo, di welfare, di reddito e, come tale, incrocia le esistenze di precarie, operai e studenti che come unico e ormai misero privilegio hanno la cittadinanza.