[English version] Il 24 aprile del 2013 è crollato un edificio nella zona di Savar, vicino a Dacca, in Bangladesh: 1.129 morti. Erano operai e operaie. È stata la più grave strage mai avvenuta in una fabbrica tessile. Questa fabbrica rifornisce marchi molto famosi: Auchan, Bonmarché, Mango, El Corte Inglés, WalMart e tanti altri.
Il 3 ottobre del 2013, quasi trecento migranti sono morti nell’affondamento di un barcone al largo di Lampedusa. La nave, partita come tante altre dalla Libia, era stipata di uomini e donne provenienti da diversi paesi africani che, per diverse ragioni, avevano scelto di muoversi e costruirsi una vita migliore.
Domenica 1 dicembre 2013, sette operai cinesi sono morti a Prato. Vivevano, come altri, negli stessi capannoni in cui lavoravano in sub-sub appalto dalle 12 alle 14 ore al giorno, pagati a cottimo per qualche ditta del pronto moda.
Nel 2014 in Quatar è morto in media un lavoratore nepalese ogni due giorni, nei cantieri dove si edificano le infrastrutture per i mondiali di calcio del 2022, ma la stima sarebbe ancora più grave se si contassero anche i lavoratori migranti provenienti da Bangladesh, Sri Lanka e India.
Cosa c’entrano tutti quei morti con le 12 persone uccise a Parigi nella sede di Charlie Hebdo? Secondo noi c’entrano molto, perché è attraverso gli occhi di tutti coloro che si muovono attraverso il mondo, di tutti coloro che criticano con i piedi lo stato presente delle cose, che ci sembra necessario giudicare il massacro di Parigi.
Ci riconosciamo in un movimento reale e transnazionale e non facciamo differenze se i morti avvengono qui o altrove. I movimenti dei migranti e delle migranti non sono liberi, ma cercano costantemente la libertà. Quanto pesa sui movimenti dei migranti il fanatismo di chi vuole fare della religione una forma di identità coatta? Moltissimo. I dodici morti di Parigi pesano e peseranno moltissimo sui movimenti dei migranti, perché sono un’ipoteca sulla loro libertà di muoversi e di restare nei luoghi dove vorrebbero stabilirsi. C’è in questi giorni una lugubre tendenza a differenziare i morti. Invece i morti di Parigi finiranno per sommarsi a tutte le altre morti che costellano i percorsi migratori.
Nell’attacco quotidiano che i governi delle migrazioni portano alla libertà dei migranti e delle migranti, la religione sta diventando sempre di più un meccanismo di autodifesa che garantisce un’identità e persino un riconoscimento. Chi però fa della religione un’identità assoluta ed esclusiva non si oppone al governo delle migrazioni. Chi fa della religione un’arma e un costante ricatto si oppone in primo luogo alla libertà dei migranti e delle migranti di cambiare non solo paese, ma anche di cambiare se stessi.
È bene scegliere la prospettiva da cui guardare le cose. La nostra prospettiva non è quella opposta ai Salvini, alle Fallaci, ai Ferrara, agli Zemmour. Per quanto fastidiose e pericolose siano queste posizioni, scendere sul terreno che loro impongono, discutere di quanto Occidente deve esserci o non esserci, significa ridurre la questione a un dibattito «occidentale» tra tolleranti e intolleranti. La libertà non è una questione di mera tolleranza. La nostra prospettiva non è quella di chi sta lì a misurare quanto Occidente ci fosse nella satira di Charlie Hebdo, quanto fosse politicamente scorretta, quanto irrispettosa fosse delle identità consolidate dalla religione altrui. La libertà non è una selezione preventiva degli argomenti consentiti. La nostra prospettiva non è quella di chi fa dell’imperialismo un dio onnipotente che genera tutte le cose. Noi non pensiamo che l’ISIS e Al Quaeda siano semplicemente l’effetto perverso e avvelenato della politica occidentale, che si manifesta con una violenza di ritorno cieca e indifferente, ma quasi meritata. Noi non pensiamo che tutto sia Occidente, anche perché dal punto di vista dei migranti questa divisione tra l’Occidente e il resto del mondo non è poi così netta. Noi preferiamo guardare in faccia la violenza dell’ISIS e di Al Quaeda, riconoscendo che anche nei luoghi dell’oppressione nascono movimenti e istituzioni di oppressione, sapendo che solo i movimenti degli oppressi possono rompere le simmetrie degli oppressori. Essendo ostinatamente dalla parte degli oppressi, ci interessa quello che subiscono tutti i giorni. E ci interessa come ogni giorno si sottraggono al regime delle oppressioni.
Noi lottiamo ogni giorno per affermare la nostra libertà e siamo contro chi agisce per togliere la libertà ad altri. Le rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, la rivendicazione della libertà di vivere dei cittadini di Gaza, il coraggio delle donne e degli uomini della Rojava – che mentre si oppongono all’avanzata dell’ISIS lottano per cambiare una società fatta di oppressione e sfruttamento – sono state e sono per noi movimenti di libertà che si sommano alle lotte dei migranti in Europa e altrove. Per noi dire no alla guerra significa dire no alla democrazia dei confini, allo sfruttamento imposto con le armi e con le leggi sulle immigrazioni, ma anche a ogni potere che usa la guerra santa per affermarsi. Per questo oggi siamo contro chi spaccia la morte per libertà. Per questo per noi il massacro di Parigi non è semplicemente un attentato alla libertà di espressione, ma il segno di un’oppressione e di una limitazione della libertà per milioni di vivi che si muovono nel mondo. È l’annuncio di una dittatura sul corpo delle donne, di una nuova tirannia che non vogliamo conoscere. A chi pensa di trovare la libertà nell’aldilà arruolandosi con bande di assassini potenti, che fanno affari con chiunque e poi pretendono di imporre con la forza il loro dominio, uccidendo per un disegno, noi diciamo che la sua libertà non è la nostra libertà. Non si può dipingere di rosso una porta nera.