Un altro autunno è alle porte. Ma non lo stavamo aspettando perché come sempre ci troviamo in movimento, perché il ritmo della nostra generazione non conosce stagioni. Ci ritroveremo di nuovo in piazza, scendendo in strada come abbiamo sempre fatto per chiedere una città e una società diversa, senza razzismo e sfruttamento, lottando contro quei confini che ogni giorno ci vorrebbero tenere divisi. Evidentemente non stiamo aspettando che si faccia avanti una stagione amica, che qualcuno bussi per svegliarci dal torpore estivo ma, piuttosto, ci prendiamo le stagioni, una dopo l’altra, come abbiamo fatto sinora. Il nostro calendario è sempre fitto di impegni e appuntamenti: dal martedì con il nostro consueto laboratorio Hip Hop, passando per il sabato con la nostra nuova trasmissione Catchin’ the vibes, fino ad arrivare ai nostri concerti, alle nostre manifestazioni, alle nostre riunioni settimanali. Abbiamo storie da raccontare, nuove reti da creare, nuove persone da conoscere e nuove lotte da organizzare.
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Vorremmo iniziare però con la storia di tre persone che non abbiamo mai conosciuto di persona, ma che ci toccano e ci fanno riflettere, e che non possono lasciarci indifferenti. Crediamo che, in parte, le loro storie siano le nostre storie e che, pur se sviluppatesi in contesti differenti dal nostro, possano invece indicare degli spunti per comprendere meglio la realtà, in Italia e non solo.
Vogliamo parlare di Trayvon Martin, 17 enne afroamericano che la sera del 26 Febbraio del 2012 è stato freddato da George Zimmerman, “vigilantes per diletto”, solo perché indossava un cappuccio, perché aveva “un fare sospetto”, perché era un giovane afroamericano in una zona prevalentemente bianca. Ciò che sbalordisce di più è che l’assoluzione del suo assassino si basa sul fatto che, al di là di ogni “ragionevole dubbio”, quest’omicidio non ha caratteristiche razziali. Decine di migliaia di persone, in prevalenza delle comunità afroamericane e di colore, sono scese in strada per dire che la vita di un giovane nero non deve valere meno di qualsiasi altro, che indossare un cappuccio non deve dare licenza a maniaci armati di seguirti, in attesa di un pretesto per spararti e, in particolare, per dimostrare che la legge non è uguale per tutti negli Stati Uniti, ma che ancora costruisce differenze sulla linea del colore. Il nostro ragionevole dubbio, in questo caso, è che negli Stati Uniti, come in Italia, ci sia razzismo non solo a livello di pregiudizio ma anche a livello di legge. Il nostro ragionevole dubbio è che esso debba essere chiamato con il suo nome: razzismo istituzionale. Ma, nel dubbio, non esitiamo a sparare a zero contro il razzismo istituzionale in salsa italiana, quello che vede la sua massima espressione nella legge Bossi-Fini, così come il nostro bersaglio non possono non essere quanti ancora impediscono che venga riconosciuto un diritto elementare come quello dello Ius Soli.
Vogliamo parlare di Israel Hernandez-Llach, in arte Reefa, writer e skater di Miami di origini colombiane, ucciso con un taser a 18 anni durante un fermo di polizia, tutto per una tag. Ci chiediamo come sia possibile che fare una tag possa costarti la vita e non riusciamo a trovare risposte. D’altronde è recente la notizia che a Milano due writers sono stati condannati a 6 mesi e 20 giorni per il reato di associazione a delinquere finalizzata all’imbrattamento e al deturpamento di alcuni edifici. Una sentenza clamorosa! Anche la procura di Bologna segue l’esempio milanese aprendo due inchieste su “4 tag”. Questo tipo di rimedi dimostra come, nonostante i pregi e i difetti di ogni “pratica”, non si cerca affatto di conoscere a pieno il fenomeno, ma lo si strumentalizza molto volentieri per fini elettorali. Sappiamo che non tutti comprendono l’arte del writing e spetta anche a noi raccontarla e farla conoscere. Ma non ci sono giustificazioni per la morte di Israel. Vogliamo sottolineare che il writing, l’arte di strada, non è sempre legale, ma non ferisce, non opprime la comunità, non toglie vite. Individuare nei giovani, specie se di colore, la fonte di ogni pericolosità sociale e dare alla polizia carta bianca di reprimere, quello sì che ferisce e uccide. E questo per noi è il vero pericolo.
Vogliamo anche parlare di Pavlos Fyssas, Killah P, rapper e antifascista, ammazzato dai neonazisti di Alba Dorata in Grecia. Inseguito e accoltellato mentre la polizia, che in maggioranza vota lo stesso partito dell’assassino, è rimasta a guardare. Era un MC, come molti di noi, che con la sue parole e la sua tecnica si era sempre opposto all’avanzata del neofascismo nel suo paese, avanzata di cui lui stesso è caduto vittima. Cambiano nome, cambiano sigla, ma anche in Italia c’è chi promuove razzismo, prende di mira chi e’ diverso, e si fa forte della violenza di branco, una violenza infame. Noi siamo dall’altra parte, contro l’ingiustizia che vogliono creare e l’ignoranza che vogliono diffondere.
Il racconto di queste storie è per noi un passaggio importante per comprendere il perché delle nostre attività: come Laboratorio On the Move, infatti, ci troviamo a metterci in gioco in tanti modi, anche molto diversi tra di loro: facciamo musica, politica e community organizing. Riteniamo fondamentale contrastare il razzismo istituzionale che vuole dividere la nostra generazione, e per queste ragioni intendiamo spiegare e promuovere le nostre culture artistiche contro chi le vorrebbe oscurare e criminalizzare, perché vogliamo promuovere una visione della società, della cultura e della politica fondata sull’uguaglianza.
Un’uguaglianza che alla nostra generazione “in movimento” viene ancora negata: le nostre crew non chiedono il permesso di soggiorno a chi vuole farne parte, ma a 18 anni molti di noi si trovano a dover lavorare per ottenere un foglio di carta e poter rimanere in Italia. E’ per questo che da tempo abbiamo deciso di lottare, gridando “Cittadinanza Ora” e “Meglio Ius Soli che male accompagnati” nelle strade e nelle piazze di Bologna. Ma allo stesso tempo non pensiamo allo Ius Soli come qualcosa che risolverà tutti i problemi della nostra generazione. Riconosciamo, infatti, che oramai alla cittadinanza non sono associati tutti quei diritti e quelle possibilità di accesso al welfare che venivano un tempo garantiti ai cittadini. La precarietà è piuttosto divenuta la normalità, è un processo consolidato, stabile, e che colpisce chiunque. Il ricatto della precarietà e della disoccupazione si aggiunge – è bene sottolinearlo ancora una volta – a quello di quanti, tra noi, sono costretti ad accettare qualsiasi lavoro pur di ottenere un permesso si soggiorno. D’altra parte, la più recente tragedia di Lampedusa, ha fatto improvvisamente parlare molto delle migrazioni. Il mediterraneo è diventato da decenni un luogo di morte, e ci auguriamo che smetta di essere un cimitero in mare. Ma sappiamo che questo non accadrà mai se si continua a piangere i migranti solo quando muoiono per poi ignorarli quando vivono, quando lottano, quando rivendicano diritti e la fine della legge Bossi-Fini. Per far si che il mediterraneo smetta di essere un cimitero a cielo aperto bisogna conquistare diritti per i migranti, su entrambe le rive del mare.
Sembra quindi chiaro, in ogni caso, che le vecchie coordinate non sono più valide per stabilire il nostro agire. Ciò che è certo, invece, è che tocca a noi il compito di ridisegnare le mappe, abbattere i confini così da disegnare nuove rotte.
Tocca a chi, come noi, è sempre in movimento.
On The Move