NOI NON CE NE ANDIAMO! POSIZIONE DEI MIGRANTI DOPO L’INCONTRO CON QUESTURA E PREFETTURA

Dopo quattro mesi il Coordinamento Migranti di Bologna e Provincia è riuscito a incontrare i vertici dell’ufficio stranieri della Questura e quelli dello Sportello unico immigrazione della Prefettura al fine di ottenere delle risposte, dopo le richieste presentate durante il presidio del 30 giugno. Queste richieste riguardano ambiti in cui questi organi possono adottare un’interpretazione meno restrittiva della legge rispetto a quanto accaduto fino a oggi. Le nostre richieste sono state chiare, ma le risposte che ci sono state fornite sono state confuse. L’incontro ha reso evidente che Prefettura e Questura si continuano a nascondere dietro a un folto corpo di leggi, prassi e abitudini che sembrano impedire qualunque cambiamento.

 

  • Con riferimento alla questione dei contributi INPS, Questura e Prefettura hanno affermato che attraverso nuovi protocolli tra amministrazioni, i migranti non sono obbligati a portare il rendiconto dei contributi INPS in Questura. Il venir meno di questa vessazione, però, non risolve il problema: il versamento dei contributi continua a essere considerato un requisito necessario per il rinnovo del PDS. Il peso è scaricato interamente sui migranti, il cui PDS è messo a rischio dai ritardi o dall’evasione fiscale dei datori di lavoro, rendendo evidente la disparità di trattamento.
  • Per quanto riguarda i requisiti di reddito i rappresentanti di Questura e Prefettura hanno affermato che, a fronte di una legge che lega il permesso di soggiorno al lavoro e alla situazione economica dei migranti, loro sono tenuti a controllare non soltanto la condizione presente dei richiedenti, ma anche la condizione passata, al fine di verificare la sussistenza di fonti lecite di sostentamento.

Risulta però evidente che su questo punto come su altri non vi sia né univocità né chiarezza sui modi e sull’estensione di tali verifiche. Questo lascia ampi margini di manovra e discrezionalità agli uffici competenti. I vertici di Questura e Prefettura confermano ciò dichiarando che, in questi casi, la loro prassi si rifà alla giurisprudenza. Nei casi di poca chiarezza, dichiarano di rifarsi ai pronunciamenti del Consiglio di Stato, in particolare ad un risalente al mese scorso, in cui sarebbe confermata la necessità di controllare i redditi e i contributi passati prima di rilasciare il permesso di soggiorno. Di fronte a ciò, rileviamo come vi siano diversi pronunciamenti del Consiglio di Stato, non tutti univoci e non sempre obbligatori. Il problema da noi sollevato riguarda la mancanza di volontà e di coraggio, per adottare una prassi che sia estensiva e inauguri una nuova giurisprudenza capace di rispondere ai drammatici problemi prodotti dalla crisi economica. Questura e Prefettura non possono trincerarsi dietro tali pronunciamenti per legittimare ex-post una prassi che deriva da scelte e non da necessità.

Ne è un esempio anche la durata del permesso di soggiorno per ricerca lavoro, sempre applicata avendo come riferimento la durata minima prevista dalla legge, ora passata a 12 mesi dopo i precedenti 6. Nulla impedisce agli uffici competenti di estendere tale durata a 24 mesi, nel contesto di crisi che stiamo vivendo. Ma questo non accade.

Questura e Prefettura dichiarano che tutti questi controlli vanno nella direzione di tutelare l’interesse dello Stato e del lavoratore nel controllare l’eventuale presenza di lavoro nero. Una motivazione a dir poco sorprendente: tali controlli hanno come effetto probabile il diniego del permesso di soggiorno, e dunque la clandestinizzazione dei migranti, ed è noto che senza un permesso valido non è possibile accedere a un lavoro regolare. Inoltre, avere un lavoro non significa poter rinnovare il permesso, in un “mercato del lavoro” caratterizzato strutturalmente da rapporti di lavoro precari, sottopagati, cosiddetti in nero o comunque non formalizzati. Una realtà che gli organi dello Stato fingono di ignorare. Tutto il peso di tale situazione cade sui lavoratori: oltre all’assenza di ogni minima tutela che caratterizza questi rapporti di lavoro, Prefettura e Questura di Bologna ci hanno praticamente detto che mettere a rischio anche il permesso di soggiorno è un favore che fanno ai lavoratori migranti.

A noi sembra, invece, che queste procedure complichino volutamente il rinnovo del permesso di soggiorno, anche in presenza di un contratto di lavoro regolare e attualmente in essere, con l’effetto di condannare la disoccupazione passata e rendere impossibile la vita dei migranti in una situazione in cui il lavoro è sempre più precario e la disoccupazione dilaga.

Durante l’incontro, i responsabili di Questura e Prefettura hanno affermato che questi controlli sono motivati anche dalla necessità di evitare che persone che non contribuiscono alla fiscalità generale poi abbiano il beneficio di servizi pagati da suddetta fiscalità. Ma di quali benefici parlano? Di fatto, in questo modo i migranti, che secondo tutti i dati hanno largamente contribuito in questi anni alle finanze dello Stato, prima pagano, poi vengono eliminati per via burocratica nel momento di difficoltà. Addirittura, hanno detto che sono fatti per garantire il diritto alla pensione: forse non sanno che i migranti rischiano di perdere tutti i contributi versati se perdono il permesso di soggiorno?

Ne risulta un quadro agghiacciante, in cui i migranti vengono usati come emblema di un finta lotta all’evasione fiscale, al lavoro nero, alla crisi del welfare. Queste lotte per noi sono solo lotte contro i migranti e contro i lavoratori, che vengono così presi in giro in nome di quel razzismo istituzionale per cui le difficoltà economiche diventano un giudizio morale sui migranti e le loro condotte di vita.

Mentre si pongono come puri esecutori della legge e garanti dell’ordine pubblico, di fronte alla richiesta di aprire uno sportello informazioni, Questura e Prefettura dichiarano di fatto di non riuscire per carenza di personale e di risorse. Negando così il diritto di informazione a un cittadino straniero dello stato della sua pratica, poiché l’accesso al servizio mail non è universale come vorrebbero far credere.

Nello stesso contesto di carenza di personale ci è stato detto che l’attesa di un permesso di soggiorno, che non dovrebbe essere più lunga di 40 giorni, dipende dal personale che hanno a disposizione e quindi ora l’attesa di un PDS è più di tre mesi, senza un sportello informazioni e senza nessuna certezza di ottenere informazioni sul sito internet dove dovrebbe essere possibile avere aggiornamenti della pratica. Tradotto: Questura e Prefettura di Bologna, di fronte alle legittime richieste e proteste dei migranti, dichiarano di essere sotto organico rispetto ai compiti che la legge attribuisce loro nell’espletazione delle pratiche relative ai permessi di soggiorno. Inoltre, che non ci sarebbero i soldi per riparare l’unico bagno presente all’Ufficio Stranieri di via Bovi Campeggi, dove i migranti sono costretti a rimanere in attesa anche per ore.

Il comportamento che spesso assumono gli agenti e il personale presente nei confronti dei migranti, che comprende maleducazione ed epiteti razzisti pronunciati ad alta voce, è noto a tutti coloro che abbiano avuto bisogno di recarsi in Questura per questi motivi. La verità è che non avere un punto informativo ha il solo scopo di tenere i migranti lontani dagli occhi pubblici. La ridicola controproposta di una buchetta dove i migranti possono mettere le loro richieste denota il livello di serietà di certe posizioni.

I principali sindacati e associazioni di questa città hanno deciso negli anni di collaborare al fine di nascondere questi problemi, accontentandosi di ottenere soluzioni parziali a problemi particolari, offrendo anche i propri uffici stranieri per evitare il caos che questa legge produce. Noi pensiamo invece che sia ora di prendere atto che di fronte a queste leggi sull’immigrazione e l’impatto della crisi economica su tutti i lavoratori e le lavoratrici, non è possibile mantenere una posizione di mediazione. L’impegno per risolvere situazioni particolari non può continuare a essere un alibi per evitare di assumersi la responsabilità della lotta al razzismo istituzionale e contro la legge Bossi-Fini. Questo è quello che noi continueremo a fare.