La fonderia Atti/Atla di Bentivoglio ha una lunga storia di sfruttamento, macchinari insicuri, licenziamenti ingiustificati. Noi siamo già stati davanti ai suoi cancelli nel 2004 per difendere un lavoratore che si era rifiutato di lavorare in condizioni pericolose per la sua salute. Ora la storia si ripete. Abdelkader, di ritorno da un infortunio sul lavoro, si è giustamente rifiutato di svolgere un compito non adatto alle sue condizioni di salute e per questo è stato licenziato. Due giorni di sciopero che ha bloccato le merci in entrata e uscita: atti di insubordinazione contro l’ordine confederale della fabbrica, padrone livido che sperimenta che cos’è la rabbia, camionette della polizia che osservano lo scontro di classe, divisioni evidenti e laceranti tra i lavoratori. Tutto questo è successo la scorsa settimana alla fonderia di Bentivoglio.
Gli atti di insubordinazione degli operai migranti hanno provocato una risposta scomposta che non è solo l’esempio della politica padronale di sfruttamento dei lavoratori, ma la messa a regime di una precarizzazione della vita di fabbrica in linea con la politica introdotta dal Jobs Act. Si tratta di distruggere definitivamente ogni possibilità di lotta, ogni potere contrattuale, soprattutto ora che il SiCobas ha rotto il fronte dell’immobilismo gestito dai sindacati confederali. La cassa integrazione, l’immobilità di livello, la discriminazione delle donne, le gerarchie interne ‒ per cui gli operai italiani o gli operai più docili non svolgono le stesse mansioni dei migranti o degli operai indisponibili ad abbassare la testa ‒ sono gli espedienti messi in atto per fare della fabbrica una «caserma», come dicono senza mezzi termini i lavoratori.
Quello che hanno fatto i lavoratori con il loro sciopero e il loro blocco delle merci non è perciò solo un atto di solidarietà e di coraggio, ma il rifiuto netto di una politica dell’obbedienza che passa dal padrone, ma anche dai sindacati confederali complici e dalle istituzioni. Interpellato per la trattativa, infatti, il sindaco ha detto di potere risolvere la questione in mattinata. E abbiamo visto come l’ha risolta, mandando due camionette della polizia già alle nove del mattino. Questa politica dell’obbedienza passa dallo sforzo di mettere sempre i lavoratori contro i lavoratori, gli italiani contro i migranti, anche i migranti contro i migranti: i responsabili contro gli irresponsabili. Uno sforzo che oggi trova terreno fertile a causa di anni di silenzi sindacali di fronte all’istituzionalizzazione delle gerarchie non solo tra migranti e italiani, ma tra gli stessi migranti, imposto dalla Bossi-Fini nei luoghi di lavoro.
Si capisce quindi come mai, alla fine della seconda mattinata di sciopero, per scortare un camion che doveva consegnare merci finite un gruppo di lavoratori (per lo più dell’ufficio personale, impiegati, capiturno e capireparto, mulettisti e collaudatori), in gran parte italiani, è uscito dallo stabilimento con in testa i delegati CISL e CGIL, su richiesta del padrone che ha minacciato di spegnere i forni, di mettere tutti in cassa integrazione o in mobilità, a causa del blocco che stava rendendo impossibile mantenere i ritmi di produzione. Se nel 2004 la FIOM, pungolata dal Coordinamento Migranti, si è mossa a sostegno degli operai, anche sperando di conquistarsi qualche delegato in una fabbrica che era a maggioranza CISL, stavolta è restata immobile di fronte ai comportamenti padronali e si è allineata alla politica degli altri sindacati confederali. Verrebbe da chiedersi: con chi la faranno la coalizione sociale, se nel nome del lavoro si confondono gli interessi dei padroni con quelli operai, e nel nome della legalità si equiparano le lotte contro lo sfruttamento con le pratiche mafiose, come a Bologna hanno fatto Libera insieme ad Arci e CGIL? La faranno con chi vuole sempre e comunque difendere il lavoro, anche a costo di difendere la fabbrica?
Dopo abbiamo assistito a un catalogo di idiozia e razzismo. Un delegato CISL ha gridato a un migrante che discuteva con i suoi compagni «parla italiano che non ti capisco». Inevitabilmente le paure della crisi hanno preso il sopravvento con urla del tipo: «tu scioperi, allora se perdo il lavoro domani mio figlio viene a mangiare a casa tua», oppure «se non vi piace qui, allora andate via». Altri con più calma e chiamandosi per nome hanno per fortuna ripreso discussioni evidentemente già iniziate in fonderia. Tutti hanno però sentito il delegato CISL urlare ai lavoratori in sciopero che non si possono chiedere «solo i diritti, che ci sono i doveri», come il dovere di lavorare che piace tanto ai padroni. Molti hanno visto quattro lavoratori italiani spingere a terra un migrante che si era messo davanti a un camion in uscita per bloccarlo. Alla fine il camion carico di merci è riuscito a passare scortato dalla paura e dall’obbedienza, da chi crede, facendo tesoro delle retoriche sindacali, che sia necessario «difendere il lavoro, prima che i lavoratori».
Tutto questo non è solo una fotografia del conflitto interno alla fabbrica, ma l’istantanea di una fabbrica 2.0 ai tempi del Jobs Act. L’Atti/Atla è un chiaro esempio di come le imprese possono avvantaggiarsi del Jobs Act, trasformando la cassa integrazione in profitto indiretto, garantendosi il lavoro just in time e usa e getta, e quindi usando gli sgravi fiscali a piacimento e gli operai come pedine. Assieme alle tutele possono sempre calare anche i salari.
Le divisioni che abbiamo visto a Bentivoglio sono il frutto della politica dell’obbedienza perseguita dal governo e dai sindacati di governo. Noi vogliamo però partire dagli atti di insubordinazione di chi, come i migranti, ha deciso di dire no, pur avendo molto da perdere, visto che al loro salario non è appesa solo la loro sussistenza e quella delle loro famiglie, ma anche il loro permesso di restare, il loro diritto al soggiorno nel posto in cui vivono ormai da anni. Questi migranti decidono di lottare come operai contro lo sfruttamento e i soprusi del padrone, non chiedono il permesso per rivendicare i loro diritti perché sanno che il padrone non conosce dovere e non si fanno illusioni. Sappiamo però che la politica dell’obbedienza è un problema di tutti, di chi lotta e di chi ha paura, dei precari e dei fantomatici garantiti, dei migranti e degli italiani. Ogni giorno nelle lotte contro la precarietà noi troviamo in piccolo lo scenario surreale a cui abbiamo assistito a Bentivoglio: la paura, il razzismo, la rassegnazione, la politica padronale, la connivenza sindacale.
La politica dell’obbedienza produce o inventa divisioni: il ricatto del salario, ma anche la diffusa convinzione che stare al gioco del ricatto è l’unica chance per salvare la pelle, per pagare le bollette a fine mese, per non finire nel labirinto della precarietà. La politica dell’obbedienza è un problema di tutti perché dice una verità scomoda con cui dobbiamo cominciare a fare i conti politicamente, e cioè che sempre più lavoratori non sanno come difendersi dall’attacco indiscriminato che subiscono, mentre alle imprese è dato sempre più margine di manovra. Contro la politica dell’obbedienza, contro la politicizzazione sindacale della crisi, misera e connivente coi padroni, è necessario produrre un discorso politico che sappia affrontare le divisioni subdole, affrontandole senza remore e senza ricorrere a miti senza realtà. Ci sono profonde divisioni in fabbrica e negli altri luoghi di lavoro. Da qui bisogna partire se si vuole smontare il castello di carta della rassegnazione, producendo organizzazione fuori e dentro le fabbriche e gli altri posti di lavoro a partire dalle differenze. L’unità politica delle lavoratrici e dei lavoratori non è, non può più essere, una questione di identità.
In questa situazione i proclami servono a poco. Gli atti di insubordinazione dei lavoratori migranti a Bentivoglio mostrano una verità scomoda, ma dalla quale dobbiamo necessariamente partire: il nostro maggiore problema siamo noi.